Gehiy, l'illusionista del nuovo Millennio di Mario Baudino

Gehiy, l'illusionista del nuovo Millennio Grande innovatore o manierista? i suoi edifici-sfida conquistano il pubblico e dividono gli architetti Gehiy, l'illusionista del nuovo Millennio Mario Baudino jT-! il Grande Innovatore / che sta indicando la strada per l'architettura del nuovo Millennio o inve- i _J ce si tratta d'un Grande Manierista che ci porta verso un paesaggio di rovine, verso l'omologazione generale? Frank Gehry, la maggiore «stella» del panorama mondiale, dopo il successo spettacolare e turistico del suo Museo Guggenheim a Bilbao d'inaugurazione è diventata un evento, con tutti i mass media e decine di migliaia di visitatori) sembra aver messo in crisi l'architettura; nel senso che ha aperto una discussione sui principi stessi del costruire edifici nel nostro mondo ipertecnologico, dove vivere è per certi aspetti sempre più facile, e per altri sempre più difficile. Ieri «La Stampa» ha pubblicato in prima pagina l'immagine della prossima realizzazione, il plastico del Centro musicale di Seattle: una sorta di mongolfiera multicolore e come afflosciata a terra, dove si infila una strada sopraelevata. Un edificio che non ha più nulla dell'edificio, ma ha molto della scultura e soprattutto della pop art americana. Gehry non ha mai fatto mistero di questa predilezione: ha spiegato d'aver imparato da Picasso che «ogni idea può essere buona e utilizzata», non si è fermato davanti a frasi effetto. Per esempio: «L'edificio è come una ballerina». «L'architettura è qualcosa in cui ti puoi trovare dentro senza volerlo». Bruno Zevi lo ha paragonato al Borromini, il grande architetto barocco. Ha lavorato in tutto il mondo con grandissimo successo, dalle prime case a Los Angeles a quelle realizzate nel '79 a Venezia, all'Arsenale; ha costruito sempre in California il Museo spaziale e la Walt Disney Central Hall, che sembra un bouquet di muri e di schegge appena uscito da terra. Sempre per Zevi segna «l'apoteosi della architettura organica», insomma un punto d'arrivo della ricerca che inizia con William Morris e va avanti con Le Corbusier e Frank Lloyd Wri- ght. Anche Francesco Dal Co, in apertura del grande volume a lui dedicato, appena uscito per Electa, gli riconosce d'aver compreso «la possibilità di occupare con l'architettura gli spazi che l'arte non riesce più a dominare e di demandare al progetto architettonico il compito di portare alle estreme conseguenze gli esperimenti avviati dalle avanguardie storiche». Siamo davanti a un ribaltamento di prospettive, una rivoluzione: all'opera «viene assegnato il compito di proporsi al confronto non già con un pubblico di utenti ma con un pubblico di spettatori». L'architettura viene invasa dall'arte, o diventa spettacolo. Inaugura un nuovo mondo. 0 forse rinuncia al suo ruolo, sbagliando. Questa almeno è la diagnosi che fa un progettista severo come Giancarlo De Carlo. Dal suo studio milanese, avanza una preoccupazione : «Il problema non è tanto Gehry, quanto i suoi imitatori. Io sono molto allarmato all'idea che si faranno sempre più architetture diciamo così un po' sbilenche, ma tutte omogeneizziate, senza legami col luogo. Il museo di Bilbao potrebbe sorgere in qualsiasi angolo del mondo. L'architetto do¬ vrebbe dare un contributo alla resistenza contro l'omologazione, alla memoria. Il disastro sarà quando tutti faranno così; saremo usciti dalla cretineria del post-moderno per cascare nell'omogeinizzazione generale». Una prospettiva non affascinante. Che da un altro punto di vista coinvolge un padre del post-moderno come Paolo Portoghesi, che ha scritto di Gehry in un volume dedicato ai «Grandi architetti del Novecento». Distingue una fase innovativa, negli Anni 70, e una manieristica a partire dai tardi Anni '80, quando diventa «il cantore della vio¬ lenza plastica». «Siamo all'architettura al servizio della pubblicità - ci dice ora Portoghesi -, che gli ha insegnato ormai tutto. Si inaugura Bilbao, e arrivano frotte di turisti». Quindi non c'è più innovazione? «Per me il termine innovazione ha un significato positivo: e cioè scoprire nuovi territori di ricerca. Sotto questo punto di vista in Gehry c'è ben poca innovazione. Ci sono tentativi di morfologia scultorea, e va bene che anche Michelangelo era scultore, ma aveva attraversatola tradizione. Gehry si piega alla condizione irrazionale in cui viviamo. E non propone niente: il secolo è pieno di espressionismo estremo». Secondo Portoghesi l'architettura che sceglie «l'obliquità» e la «deformazione» nega se stessa. Gehry fino almeno alla Loyola Law School di Los Angeles (un campus per i gesuiti realizzato tra il '78 e il '90) faceva i conti con la sua realtà americana, fatta di periferie, sapeva guardare «seriamente» ad esse. Poi non più. Perché? Una risposta è nel libro che uscirà da Einaudi a gennaio di Mario Fazio, «Le città invivibili. Processo agli architetti». Gehry, dice, fa una architettura sottratta alle norme dell'uso, della funzione, della comunicazione col contesto e della leggibilità, totalmente imposta come spettacolo. Ha affermato che il suo Museo di Bilbao fa pensare agli incubi di «Metropolis», il film di Lang su un mondo totalmente automatizzato. Forse non era una provocazione. Il settantenne architetto della «mondializzazione», nato a Toronto da una povera famiglia ebraica e soprannominato «pesce» dai compagni (ora ha messo l'emblema del pesce nei suoi edifici, disegnandolo sulle pareti o piegando le pareti stessa a quella immagine) resta nel momento del massimo successo una sorta di enigma. Ci ha portato il trionfo della forma obliqua, contorta, dello sconvolgimento dell'ordine «canonico», degli edifici in pendenza: è l'annuncio di un nuovo incubo o la sveglia che suona per destarci? L'architetto americano Frank Gehry. A destra il centro musicale di Seattle: una mongolfiera multicolore afflosciata a terra in cui si infila una strada sopraelevata

Luoghi citati: Bilbao, California, Los Angeles, Seattle, Venezia