La Germania che guarda indietro di Barbara Spinelli

La Germania che guarda indietro A sinistra e a destra molti intellettuali cercano rifugio nei vecchi stereotipi anti-americani La Germania che guarda indietro // suo nemico è Fischer che difende l'individuo DIECI ANNI DALLA CADUTA DEL MURO inchiesta Barbara Spinelli continua dalla prima inviata a BERLINO PER Fischer, come anche per Havel, per Habermas, per l'ungherese Peter Nadas, la partita del Kosovo segna il crepuscolo del tradizionale Stato Nazione - o meglio del principio di non ingerenza, intangibile durante la guerra fredda e pilastro sacralizzato dell'Onu - e fonda un diritto delle genti tutto da inventare: un diritto che conferisca priorità a minoranze e cittadini gravemente minacciati, e «demistifichi l'idolo della sovranità statale o dei collettivi chiusi» (Havel, The New York Review of Books, 10-6-99). Simili convinzioni disturbano la serenità, la voglia di archiviazione del passato, le certezze accumulate da un'elite che celebra il decennale della caduta del Muro e la nascita dell'euro come una sorta di conclusione della storia, di pagina interamente bianca: di prepensionamento delle ambizioni potenti, del pensiero vigile, delle esperienze vissute. Disturbano, simili convinzioni, perché non si limitano a constatare la comparsa di un inedito soggetto giuridico - la persona umana in sé, sconnessa dai collettivi statali in casi di emergenza persecutoria - come conseguenza della crescente mondializzazione economica. Fischer e Havel non sottovalutano gli effetti della globalizzazione, ma fanno anche tesoro di quel che è stato appreso nelle resistenze antitotalitarie, quando muri e fili spinati incarnavano le sovranità inviolabili dei despoti. La riscoperta del diritto della persona nasce anche da un riesame del passato totalitario, e di quel che precisamente accadde dieci anni fa: comporta dunque un riepilogo della guerra fredda, dei compromessi senza dubbio obbligati ma sottilmente diseducativi, corruttori, che la strategia della distensione ha comportato, dei compiti infine - non più frenati da Muri, da storiche costrizioni - affidati alla Germania unificata e di nuovo sovrana. Fischer d'altronde non è neofita delle battaglie libertarie: chi lo sospetta di infedeltà ha forse dimenticato la sua militanza in favore dei boat people, fuggitivi del comunismo vietnamita negli Anni 70. Fischer è pietra d'inciampo. Scandalizza la sua irrequietudine, e l'insistenza sulla memoria. Ieri si batté per gli assassinati di Srebrenica in Bosnia, e per la prima volta ruppe un tabù della sinistra e del pacifismo: «Mai più la guerra può divenire uno slogan distruttore - disse evocando le proprie stesse omissioni - e per questo va sostituito con lo slogan, per noi tedeschi assolutamente prioritario: Mai più Auschwitz! Per combattere Auschwitz, dobbiamo sapere che le guerre sono a volte obbligate». Dopodiché si affiancò a Madeleine Albright, in Kosovo. Poi, con una decisione quasi solitaria, si indignò per l'ignavia dell'Onu a Timor Est. Infine, negli ultimi giorni, il ministro alza la voce contro le forniture di carri armati tedeschi alla Turchia. Fischer non tradisce il '68, come tanti detrattori sostengono non senza gioia maligna. Lo spirito di rivolta permane: solo che si esercita in altri campi, sceglie la democrazia liberale, si spoglia del vestito antiamericano che ha acceso, e confortato, tre generazioni di intellettuali europei occidentali. Anche questo - forse soprattutto questo - è giudicato in Germania sconveniente: che l'animo del Sessantotto torni a vivere, nell'ex adolescente ribelle che possiede l'arte di correggere i propri errori e che oggi è non solo oculato capo della diplomazia, ma fiducioso alleato della Albright. Chela battaglia per i diritti dell'uomo configuri - per uomini come lui, o CohnBendit, o Rondini: r capo dell'amministrazione Onu in Kosovo il pensiero Onu in Kosovo forte destinato a metter radici nel decennale della caduta del Muro. Amici e sostenitori della politica di Fischer non si capacitano, di fronte ad aggressioni sì diffuse. Ha colpito innanzitutto quella apparsa sullo Spiegel, a firma di Rudolf Augstein. Non un articolo argomentato in verità, ma una vera e propria resa dei conti, un tono che echeggia certi volantini terroristi contro i traditori del socialismo o i venduti al capitale. Il ministro verde è chiamato farabutto, Schuft, e perfino la sua privata biografia è tirata in ballo per sporcarlo: figlio di macellai, la sua vanitosa smania di autoaffermazione rievocherebbe la smania arrivista che traspare dal «Mein Kampf» di Hitler. La sua abiura degli ideali pacifisti e di sinistra è paragonata all'inganno di Giuda ed Ephialtes, il leggendario traditore che denunciò Leonida ai nemici Persiani, nella battaglia delle Termopili. I Persiani di Serse sono gli Americani e la Nato, con i quali Fischer si sarebbe legato a filo doppio, assecondando le loro aggressioni imperialiste, dal Kosovo a Timor Est. Impallidito a forza di ambizione, Joschka il parvenu avrebbe perduto - oltre che l'amicizia di Augstein - ogni charme: «Bye Bye, Joschka Fischer! La tua maschera finalmente si è spezzata». (Der Spiegel, 40/1999. Un estimatore del ministro verde, il filosofo Richard Herzinger che incontro a Berlino, mi spiega la natura di questa ridondante aggressività. «A prima vista l'attacco sembra venire da sinistra, visto il settimanale su cui è uscito. Ma l'offensiva contro la strategia dei diritti dell'uomo, e contro l'oltraggio inflitto all'idolo delle sovranità, si è estesa dopo la guerra del Kosovo ed ha le sue origini in una forma inasprita, acuta, di neo-nazionalisrno tedesco. Nazionalismo di cui non solo Augstein si fa portavoce, o socialdemocratici come Helmut Schmidt, ma anche difensori dello status quo conservatore come Konrad Adam sulla Frankfurter Alìgemeine. Non a caso 1 attacco di Adam al ministro si intitola "La Dottrina Fischer": un termine che allude con perfidia alla Dottrina Breznev, escogitata per limitare le sovranità dei satelliti nell'Urss, e per legittimare la repressione delle liberta e l'ingerenza in nome del totalitarismo collettivo comunista». Fischer, in altre parole, sarebbe rimasto l'ideolo¬ go che fu sempre, fin dal '68: ideologo dell'Uomo Nuovo, del Grande Piano emancipatore promesso dall'«Internazionale», degli integralisti valori trascendenti in nome dei quali ogni guerra santa è permessa: «Là dove il diritto delle Genti non conta più e pesa solo il diritto dell'Uomo, come chiesto da Fischer all'assemblea dell'Onu, ogni cosa diventa possibile e nulla è più escluso» {Frankfurter Alìgemeine, 2-10-99). Nel decennale della caduta del Muro si celebra anche questo, afferma Herzinger: non solo gli audaci sforzi dell'unità, della reinvenzione di Berlino e della Germania, ma la simultanea tentazione di chiudersi in se stessi, di cancellare le lezioni passate, di compiacersi in un orgoglio nazionale a prova di rischi, di innovazioni diplomatiche. «Il regolamento dei conti con la generazione del '68 è molto in voga ed è eccezionalmente aspro fra intellettuali e politici che vanno alla ricerca di un originale spirito di Berlino, alternativo a quello di Bonn», mi racconta ancora il filosofo, «Esiste ad esempio un gruppo di giovani socialdemocratici, fondatori di una rivista chiamata "Generazione Berlino", che propugna un'autentica ribellione contro lo spirito ribelle del Sessantotto. E' l'antica contrapposizione tedesca tra Civilizzazione frantumante e introversa Comunità immunizzata, tra cosmopolitismo urbano e cultura delle radici, che toma in superficie e paralizza anche in economia le riforme liberal-libertarie di cui la Germania corporativa ha oggi immenso bisogno. Le ideologie della Comunità omogenea - della Gemeinschaft - riprendono il sopravvento e le sue avanguardie partono in guerra contro gli eccessi dell'individualismo e dell'anticonformismo, ereditati dal '68. La Repubblica di Bonn è ritenuta un capitolo concluso, dominato da meschini interessi economici. Finalmente con il trasloco a Berlino si volta pagina: si riscoprono i più eterni, protettivi valori del filisteismo borghese tedesco. Si annuncia la fine dei troppi conflitti mentali, del troppo scervellarsi, del troppo pensa- re». E per proteggersi dall'individualismo liberista e dalla disumana civilizzazione americana - detta oggi con sprezzo «civilizzazione mediàtica» - «si rivaluta la famiglia, l'ordine, i milieu chiusi, lo Stato robustamente paterno». Del passato non si vuol sapere più molto, e Fischer incarna appunto questo passato ingombrante, esigente: questa lezione che viene all'Occidente europeo dalla Resistenza antifascista come da quella anticomunista, da Willy Brandt come da Vaclav Havel. Secondo Herzinger, è qui il comune denominatore del decennio che separa la caduta del Muro dalla guerra in Kosovo: «è nella nascita dell'individualismo e del diritto della persona, inaugurato dall'Ottantanove e sancito dal Novantanove». Da questo punto di vista il crollo del Muro è esperienza prettamente filosofica per la nazione tedesca, e più in particolare è esame di maturità per le correnti verdi-pacifiste: «Costante per anni, il dibattito dei Verdi sulla questione centrale della guerra c della pace è stato salutare non solo per le sinistre, ma per la psiche della Repubblica federale postbellica. E'grazie al coraggio mostrato dal partito di Fischer nel Kosovo, che i tedeschi hanno cominciato a uscire dal guscio in cui per decenni si erano accomodati. Dentro quel guscio essi esercitavano una sorta di monopolio sul male assoluto, e non ammettevano paragoni con altri mali del secolo, contemporanei o futuri. Questo primato della colpa obnubilava la vista, e impediva loro di impegnarsi perché non si ripetessero ulteriori genocidi. In un certo senso Milosevic ha perso la guerra il giorno in cui il Congresso dei Verdi, a Bielefeld alla fine di maggio, approvò la linea di Fischer». Ma simili progressi tedeschi - e quindi europei - non sono sicuri. Sono fragili, sempre reversibili. Lo si è visto con chiarezza nell'estate scorsa, quando si è infervorato il dibattito sul discorso del filosofo Sloterdijk. Solo in apparenza la disquisizione di quest'ultimo era dedicata alle sfide della bioetica e della manipolazione genetica, sostiene Herzinger: «In realtà, quando Sloterdijk dichiara il definitivo fallimento dell'umanesimo europeo, la sua incapacità congenita ad ammansire la bestia-uomo, è ancora una volta la polemica veterotedesca contro la civilizzazione occidentale e democratica che rispunta all'orizzonte. Polemica che fu propria dell'idealismo, e di Nietzsche, di Heidegger, di Spengler. Con Sloterdijk riemergono forme di ressenti meni contro quel che vi è di disgregante, di decadente, nella democrazia di massa liberale: è straordinario come la storia mentale si ripeta, imperturbata. Ma ancor più straordinario è che la sinistra non veda mai se stessa in queste regressioni, ma scorga sempre solo il riemergere delle destre, intellettuali e politiche. Eppure l'idea di un uomo completamente rigenerato, addestrato da un'avanguardia, ostile all'amorale cultura americana di massa e al suo universalismo, è assai radicato nel messianesimo utopico della sinistra. La guerra Nato in Kosovo è vissuta come conferma di tale imperialismo universalista. Ed è quest'ultimo l'effettivo bersaglio di Sloterdijk. Degenerato com'è, votato a partorire null'altro che i pusillanimi, striscianti, interessati Ultimi Uomini di Nietzsche, l'Occidente non ha più nulla da insegnare: tantomeno ha da imporre al mondo le proprie dottrine sui diritti individuali». Non la pensano così solo i nazionalconser nazional-conservatori. Molti pensatori che furono di sinistra cercano oggi rifugio nel pensiero di destra, e puntano gli strali contro la «politica della memoria» che ha caratterizzato la Repubbli i Bh pca questi Botho Strauss e Martin Walser, Peter Handke difensore dei serbi nei Balcani e Peter Sloterdijk. A loro parere la guerra in Kosovo è stata una parentesi: sovversiva dell'antico ordine mentale, e al tempo stesso fastidiosamente decisa a tradurre in azione la memoria di Auschwitz e dei Gulag. Per tutti costoro la caduta del Muro è un episodio memorabile, ma non - come per Havel, o Herzinger, o il giornalista Klaus Hartung - un evento essenzialmente filosofico. C'è voglia di dimenticare il Kosovo - e dunque di ignorare la guerra di sterminio in Cecenia - perché c'è voglia di dimenticare l'Ottantanove. La cultura dominante tedesca e forse anche europea rischia di ricadere nel casalingo, e la querelle contro la civilizzazione universalista e la cultura americana può ricominciare. Gli attacchi contro Fischer, assieme ai successi postcomunisti in Germania Est, sono altrettanti preannunci di queste possibili, ricorrenti regressioni. ca di Bonn: Sopra una manifestazione di lavoratori a Berlino. A destra, soldati tedeschi del contingente Kfor in Kosovo. Sotto il ministro degli Esteri Joschka Fischer Il filosofo Herzinger «Da noi il valore della persona, scoperto con l'Unificazione dell'89, si è imposto con l'intervento tedesco nell'ex Jugoslavia del '99» Il ministro è accusato da molti ex compagni di aver tradito il '68, da altri di aver violato il tabù della sovranità nazionale Ma durante la guerra del Kosovo ha avuto il coraggio di difendere il diritto dei singoli contro quelli dello Stato