Doppio processo, Parlamento e tribunale di Emanuele Macaluso

Doppio processo, Parlamento e tribunale IL CASO POLITICO L'ANALISI DEI. SENATORE EMANUELE MACALUSO Doppio processo, Parlamento e tribunale Dai verbali dell'Antimafia l'ipocrisia di tutti ipartiti documénto Emanuele Macaluso ANDREOTTI era imputato dei reati più infamanti per il codice e la moralità politica: a Perugia come mandante di un omicidio (la procura aveva chiesto l'ergastolo), a Palermo per associazione mafiosa (la procura aveva chiesto quindici anni di carcere). Prima e dopo le sentenze si è discusso se i processi erano «politici», nel senso che sotto accusa erano anche la De e il sistema politico da essa governato; o, come diceva Caselli, si trattava solo di un processo ad un uomo politico che si era macchiato di reati comuni. Ora questa distinzione era, in una certa misura, valida per il processo di Perugia, non lo era per quello di Palermo. Il tentativo di spaccare Andreotti in due - capo corrente della De siciliana inquinata e in quanto tale processato, presidente del Consiglio e ministro e in quanto tale non processabile - fu fatto per tenere il processo a Palermo e non trasferirlo a Roma presso il Tribunale dei ministri. Tesi fatta propria, senza fiatare, dal giudice dell'udienza preliminare, dott. Agostino Gristina, il quale ebbe a scrivere che «il contributo a Cosa nostra (da parte di Andreotti - N.d.R.) era derivante dalla concent/azione di potere nelle mani dell'imputato quale capo corrente nazionale e internazionale, avente la capacità di influenza e di condizionamento largamente superiore a quella limitata, settoriale e temporanea che allo stesso poteva derivare da incarichi istituzionali». Quindi Andreotti era autorevolissimo sul piano nazionale e internazionale non per i suoi incarichi di governo, ma perché capo-corrente. Ogni commento è superfluo. Tale linea è stata successivamente travolta da tutta la condotta tenuta, nel corso del processo, da parte dei pm. Il dott. Roberto Scarpinato nella sua requisitoria contro Andreotti ha detto che «il potere armato di Cosa nostra e il potere di Andreotti si sono "ibridati" dando vita ad un nuovo potere politico-mafioso, e quindi - aggiunge il pm - la mafia è diventata una associazione unica al mondo che ha esercitato la sovranità di uno Stato illegale». Se la mafia poteva esercitare questa sovranità in uno «Stato illegale», tramite un Andreotti «ibridato» con Cosa nostra, non lo faceva certo grazie alla corrente andreottiana siciliana, ma grazie ai poteri che l'ex presidente del Consiglio esercitava nelle sue funzioni statali. Questo processo di «ibridazione» poteva guidarlo e realizzarlo Andreotti con la sua corrente siciliana? O questa logica chiama in causa il ruolo della De nel suo complesso come partito di governo, e più in generale il sistema politico italiano? Con questa valutazione della procura palermitana la dimensione politica del processo è riemersa, dato che, tramite Andreotti, si sarebbe verificata l'ibridazione tra mafia e Stato. Da qui la domanda che ci siamo sempre posti: questo nodo poteva e doveva essere sciolto in un'aula di giustizia del Tribunale di Palermo? La nostro risposta è stata chiara: no. E' inutile spendere chiacchiere in luoghi comuni quali Andreotti è solo un imputato come altri, la legge è uguale per tutti, finalmente un potente alla sbarra ecc. Ma Andreotti non era accusato, come Clinton, di molestie sessuali o di omicidio per motivi personali. Era accusato di avere «ibridato» lo Stato con la mafia. Il nodo quindi era essenzialmente politico. Il Parlamento, invece, scaricò tutto all'autorità giudiziaria. Non a caso nel corso del processo si è parlato anche delle leggi antimafia fatte o non fatte e delle linee politiche seguite per contrastare Cosa nostra. Un nodo politico, quindi, che è riemerso dopo la sentenza di assoluzione. Si spiegano così le reazioni a cui abbiamo assistito soprattutto da parte di chi è stato nella De: da Castagnetti a Cossiga, da Martinazzoli a De Mita, da Mastella a Elia, da Casini a Bianco, da Buttiglione a Letta. Tutti hanno difeso non solo la storia personale di Andreotti, ma il ruolo della De. E si è ricordato Moro: la De non si fa processare. A sinistra (Ds) tanta ipocrisia, da un canto si dice che il processato era Andreotti e non la De (c'è di mezzo il rapporto con i popolari e lo stesso Prodi), dall'altro si esalta oltre misura l'opera dei pm palermitani che hanno messo sotto accusa il «sistema». Fino all'ultimo giorno l'Unità ha tifato per la condanna, e successivamente i dirigenti Ds hanno tenuto a dire che non bisogna confondere la politica con i processi, che la De non si processa ma resta sotto accusa ecc. Ma è questo il punto? Come, perché e quando nasce e cresce il «caso» giudiziario Giulio Andreotti? Il perché lo dice bene Edmondo Berselli (7/ Sole 24 Ore del 24 ottobre). «Il processo contro Andreotti era nato da un'intenzione prometeica quanto sbagliata: cioè dalla volontà di identificare attraverso lo strumento giudiziario identità, ruoli, azioni che appartengono alla sfera della politica. Dopo la drammatica crisi agli inizi degli Anni Novanta, nessuno meglio di Andreotti appariva il bersaglio più opportuno per colpire l'Italia contaminata dalle collusioni con il potere mafioso. Colpire lui, trascinarlo nelle aule dei tribunali, sottoporlo a confronti umilianti equivaleva a processare un'intera esperienza politica, allo scopo di dimostrare una volta per tutte le responsabilità e le complicità di cui si era macchiato il passato regime». Quando nasce? Nasce in una sede politica, nella Commissione Antimafia presieduta dall'on. Luciano Violante, nel momento in cui fu affrontato il rapporto tra mafia e politica. Nel novembre del 1992 venne interrogato Tommaso Buscetta (con una procedura omonima furono interrogati alcuni pentiti), il quale parla di Andreotti senza farne il nome, con un linguaggio e ammiccamenti tipicamente mafiosi. C'è di più. A Buscetta, Violante chiede «se un uomo politico amico di Cosa nostra deve fare una legge contro di voi... deve avvertirvi... e spiegarvi qualcosa?». Buscetta: «Si fa e lui deve conservare quell'immagine pubblica a scapito di Cosa nostra». 11 riferimento è chiaro: Andreotti doveva fare leggi antimafia ma noi sapevamo e capivamo. E' stato un nodo del processo. Ad esplicitare il nome e gli intendimenti provvedi; la «nota integrativa alla relazione», che fa corpo con essa, scritta dall'on. Alfredo Galasso. Il quale inizia il capitolo che porta il titolo «La funzione di Giulio Andreotti» con queste righe: «Per ricostruire lo scenario dei rapporti tra mafia e politica che ha caratterizzato la storia del nostro Paese negli ultimi quarant'anni non può non farsi riferimento alla figura e al ruolo del senatore Giulio Andreotti. Egli è stato un pilastro della vita politica e istituzionale di questi anni, un personaggio fondamentale di questo sistema politico e della sua degenerazione. E' compito della Commissione Antimafia occuparsene non per giungere ad un giudizio politico generale, ma per individuare in modo più specifico e puntuale gli interessi e i personaggi che hanno contrassegnato la dimensione politica della mafia. Andreotti ha svolto a lungo una funzione di garanzia del sistema di potere mafioso». A rincarare la dose provvede la relazione di minoranza dei parlamentari del Msi-Alleanza nazionale scritta dall'on. Altero Matteoli e dal senatore Michele Floriano, e dimenticata dall'on. Fini quando accusa solo i Ds di avere criminalizzato Andreotti. I due scrivono: «Insomma non c'è vicenda, che vada dai doganieri corrotti ai finanzieri improvvisati, dai petrolieri alle tangenti ai partiti, dalle trame rosse o nere ai Servizi segreti; e, quindi, a manovrare sono le cosche o la P2 ovvero uomini come Licio Gelli, Salvo Lima, Michele Sindona, Roberto Calvi o Vito Ciancimino, a fianco davanti o dietro a tutto ciò spunta sempre il nome di Giulio Andreotti. Non c'è quindi da meravigliarsi se in Andreotti, tramite l'amico Lima, la mafia identificasse lo strumento non solo per «aggiustare i processi» ma anche per i rapporti politici con gli Usa e la Cee e le sue connessioni con la finanza, essendo il politico di potere più stabile. Per non parlare poi del peso di Andreotti sui vertici dei Servizi segreti e dell'Arma dei Carabinieri. Pertanto riteniamo la relazione presentata dall'on. Violante e votata dalla Commissione Antimafia a larga maggioranza in data 6 aprile 1993, un passo avanti rispetto al passato ma non sufficientemente incisiva». Va ricordato che la relazione di Violante, dove sono tracciate le responsabilità di Andreotti come capo-corrente di Lima e dell'accordo fatto tra quest'ultimo e Ciancimino, fu approvata all'unanimità (Pds - socialisti De - liberali - repubblicani) con l'eccezione del radicale on. Taradash che fece una sua relazione. E del Msi-Destra nazionale che presentò un suo testo, ritenendo «evasiva» quella di Violante su Andreotti. Taradash racconta che un parlamentare De chiese e ottenne un autografo di Buscetta. La nota integrativa di Galasso è ampia e i punti più significativi li ritroveremo nel documento d'accusa della procura palermitana. Ecco perché penso che la responsabilità e la viltà delle forze politiche è il vero punto di partenza di un «caso» giudiziario che ha sempre conservato la sua essenzialità politica evitando di affrontarlo nella sede politica. Ecco perché oggi, dopo la sentenza, le forze «nuove» sono chiamate a fare i conti con il «caso». Le ipocrisie non servono. Serve invece una riflessione seria e rigorosa sui primi Anni Novanta e sulla crisi del sistema politico. Non è un caso che la cosiddetta transizione non trovi sbocchi e la sinistra non riesca a ritrovare un nuovo punto di riaggregazione. Le reazioni della destra alla sentenza sono state becere e rozze e quelle della sinistra reticenti, ipocrite e corrive. Sono il segno dell'impotenza e della viltà in cui si trova, ancora una volta, la politica. A destra, il senatore Pci-Pds Emanuele Macaluso Nella foto sotto: una immagine della commissione Antimafia guidata da Luciano Violante Il senatore Emanuele Macaluso, a lungo dirigente del Pei e del Pds e autore di due libri sul caso Andreotti, ha scritto per la sua rivista «Ragioni del Socialismo» questo articolo, che anticipiamo, ricavato dai verbali della commissione Antimafia che precedettero i processi di Perugia e Palermo.