«Come posso tornare a Milano così?»

«Come posso tornare a Milano così?» INCONTRO CON IL LEADER SOCIALISTA QUALCHE GIORNO PRIMA D.ELLA CRISI «Come posso tornare a Milano così?» «Ilpremier? Anche Usuo partito lo ha lasciato solo» «Dieci anni fa, proposi al Pei un patto federativo. Occhetto non era contrario, anzi. Ma mi disse che la maggioranza del suo partito non l'avrebbe mai seguito, perché voleva l'accordo con la De» retroscena Fabrizio Rondoiino Hi O incontrato Bettino Craxi giovedì scorso, nella sua casa di Hammamet. Non lo avevo mai conosciuto prima. Abbiamo chiacchierato per una buona mezza giornata, prima seduti nel patio al lungo tavolo ingombro di carte, libri, fotocopie, giornali; poi nel bel giardino interno circondato dalle palme. Sebbene sia molto diverso dall'immagine che ciascuno di noi ha nella memoria, Craxi mi è sembrato in buona forma. Non gli piace far la parte del malato. Ma la sua malattia conosce rapidi mutamenti, crisi improvvise. Gli ho chiesto del passaporto diplomatico promessogli da Arafat. «Non è un problema, il passaporto. Potrei averlo anche dalla Tunisia, se lo chiedessi. Ma per andare dove?». In Italia, gli ho detto. «Macché. Non posso mica tornare in Italia così». Non abbiamo parlato né dei suoi processi e delle sue condanne, né dei modi per consentirgli di tornare in patria. Però è chiaro che è l'Italia la sua ossessione. A torto o a ragione, Craxi è convinto di subire una grande ingiustizia: non perché non si consideri responsabile, ma perché avverte una sproporzione intollerabile fra le imputazioni e le condanne che ha ricevuto, e quelle che sono toccate agli altri. Tuttavia, non mi ò parso preda del rancore o del risentimento. Ha detto: «Sapessi quante cose potrei raccontare su questo o su quello... Li ho conosciuti tutti, io. Però non mi va di fare questa parte. Almeno finché sono vivi». Mi ha chiesto notizie di Occhetto, che ricorda con affetto. «Ci siamo conosciuti a Milano, eravamo studenti e facevamo già politica. Abbiamo sempre avuto buoni rapporti». Gli ho chiesto perché mai, ai tempi della «svolta» che porterà allo scioglimento del Pei, esattamente dieci anni fa, lui e Occhetto non si siano intesi. La storia d'Italia forse sarebbe cambiata, se la sinistra avesse smesso di farsi la guerra. «Quando cadde il Muro di Berlino, feci un rapido calcolo - ha risposto Craxi -. Se scateno una campagna anticomunista, mi dissi, fra cinque anni avrò conquistato un milione di voti. Non ne vale la pena. Per questo lanciai invece l'unità socialista. Riservatamente, proposi al Pei un patto federativo. Occhetto non era contrario, anzi. Ma un giorno mi disse che la maggioranza del suo partito non T'avrebbe mai seguito, perché voleva l'accordo con la De. Capii che era così quando un giorno vidi Gava uscirsene con la proposta di un governo col Pei. Poi venne Mani pulite...». C'è una vena di rimpianto, nel tono con cui Craxi pronuncia queste parole: perché è evidente anche a lui che non fu soltanto colpa di Achille Occhetto se la sinistra si dilaniò anziché allearsi, ed è probabile che Craxi già allora capisse quanto ormai logora e frusta fosse l'alleanza di pentapartito. Dei «comunisti» di oggi abbiamo invece parlato poco. «Non li conosco, non conosco D'Alema. Però lui mi sembra troppo solo e la sua maggioranza troppo litigiosa. Anch' io ero solo, ma finché ho vinto avevo il partito in pugno. Invece mi sembra che D'Alema non abbia il partito con sé, anzi». Gli ho detto che i partiti non sono più quelli di una volta. Craxi è scoppiato a ridere e ha fatto una faccia contrita: «Mi stai dicendo che non c'è neanche più il Pei? Allora siete messi davvero male, in Italia». Poi mi ha parlato della sua amicizia con Pajetta, con Cossutta, con Chiaromonte: e mi è sembrato improvvisamente lontano, come sopravvissuto ad un naufragio, persino sperduto. Mi è sembrato anche, nettamente, un uomo di sinistra - un figlio della sinistra italiana orgoglioso di esserlo. Tra i vezzi di Craxi c'è quello di fingere di non conoscere nulla dell'Italia («Che cosa vuoi che sappia, io me ne sto qui, lontano...»). Al contrario, è molto informato, e non soltanto dalla lettura dei giornali: conosce i retroscena, coglie i dettagli, sa interpretare gli avvenimenti, ne intuisce l'evoluzione. Mi è sembrato davvero un politico puro, come ce ne sono pochi ormai: la politica è la sua passione, il suo demone, il suo destino. Gli ho chiesto allora del suo giardino, delle palme, dei datteri: chissà perché, mi è venuto in mente Berlusconi che a Porta a porta ha mostrato alle teleca¬ mere il suo parco con la competenza di un giardiniere diplomato. Craxi invece ha tralasciato le piante e mi ha indicato un portico sul fondo: «Vedi quel tavolo laggiù? Tanti anni fa, quando viveva a Tunisi, cenammo con Arafat». Ridacchia: «Tempo dopo, riguardando le foto di quella cena, mi accorsi che c'era anche Abu Abbas a tavola con noi... e io non sapevo neanche chi fosse». Prima di salutarmi, Bettino Craxi mi ha regalato un libricino stampato a proprie spese. S'intitola Garibaldi e l'indipendenza della Tunisia e si conclude così: «La voce di Garibaldi suona ancora oggi nella storia dell'indipendenza dei popoli come un grande esempio di coerenza, di generosità e di umanità». Nel salone di casa, poggiato ad una parete £ià ingombra di quadri, c'è un grande diploma che conferisce a Craxi il titolo di «generale garibaldino» ad honorem. L'ho rimproverato per la trascuratezza. «Hai ragione - ha detto Craxi - debbo proprio appenderlo uno di questi giorni». Chissà, forse quel diploma sta lì da anni: tutto, ad Hammamet, ha un sapore provvisorio. Come se Craxi volesse convincersi di essere appena arrivato, di essere sul punto di ripartire. Una famosa Immagine di Bettino Craxi infermo perle conseguenze del diabete ad Hammamet