Ex Jugoslavia, una tragica farsa

Ex Jugoslavia, una tragica farsa Tutti paralizzati, a 10 anni dalla caduta del comunismo: che cosa è davvero cambiato? Ex Jugoslavia, una tragica farsa Slavenka Drakulic ZAGABRIA E9 l'autunno del 1999. Siedo nella cucina della mia vicina, a Zagabria. La pioggia batte forte alle finestre. In tre chiacchieriamo e guardiamo il telegiornale. Senza volume: nessuno può più sopportare la quantità di stupidità e di bugie vomitate dallo schermo. Siamo d'accordo nel dire che il telegiornale croato avvelena la gente al punto che non è nemmeno più un problema politico, ma piuttosto ecologico, o magari un problema di salute mentale della nazione. Ma non appena appare la faccia del Presidente, mentre riceve il burocrate minore di un qualche Paese risparmiato da Dio, iniziamo a guardarlo. No, nessuno alza il volume, ma il volto di Tudjman tiene i nostri occhi incollati al televisore. Osservare lo schermo qui è diventato un rituale. Guardare il telegiornale è l'unico modo di sapere qualcosa sul nostro futuro. Sul futuro di Tudjman, cioè, visto che le due cose sono legate. «Oggi appare un po' meglio», dice la mia vicina. «Ah, devono avergli di nuovo cambiato il sangue... Trasfusioni. È quello che gli hanno fatto per mantenerlo in vita, sai». Lei, naturalmente, si riferisce alla misteriosa malattia di Franjo Tudjman, misteriosa perché ò vietato darne notizia, e i suoi medici dicono che la saluto del Presidente è eccellente, proprio eccellente. Ma le sue foto nei giornali e le apparizioni in tv dicono il contrario: è pallido, ò dimagrito e i suoi capelli diventano sempre più sottili, un segno evidente della chemioterapia. In mancanza di un bollettino medico che ammetta la malattia, dobbiamo affidarci al Una via di Zagabria. Nella foto piccola Slavenka Drakulic telegiornale, alle voci e ai pettegolezzi. Ed è anche peggio quando per qualche sera non appare per dimostrare che è vivo, sta bene ed è in grado di assolvere i suoi compiti. «Ha un linfoma di tipo non-Hodgkins - dice il marito della mia vicina, medico -. Può prendere parecchio tempo in una persona anziana». Scrolliamo la testa e spegniamo il televisore. Tanto la parte più importante del telegiornale è finita. Muore presto anche la nostra conversazione sull'opposizione e le prossime elezioni politiche. Il mio vicino fa un gesto noncurante: «Ma che opposizione? - dice -. Litigano solo su come dividersi il potere tra loro. E chi dice che saranno meglio loro, se vinceranno?». La conversazione mi ricorda una recente telefonata da Belgrado. La mia amica sembrava allegra: «Lui non sta bene, sai?», diceva. Lui è Slobodan Milosevic, chi altri? «Il diabete si fa sentire, è ovvio», aggiungeva, lanciandosi in una dettagliata descrizione del dittatore: «Ha la faccia pastosa e appesantita da cerchi scuri sot- Da Zagabria a Belgrado senso di impotenza, fatalismo: Tudjman e Milosevic sono ancora lì to i piccoli occhi porcini, sembra stanco e stressato, e con la storia di famiglia che ha alle spalle, il suicidio di entrambi i genitori, chissà...». Poi si fermò, non osando aggiungere altro. «E che si dice di Tudjman? - chiese -. Sta morendo o no?». «Non mi pare - risposi -. Non so se mai morirà. E se accadrà, non sono sicura che verremo a saperlo». Poi, quando le chiesi delle proteste nelle strade di Belgrado e delle novità nell'opposizione in Serbia, non potendo far gesti, mi rispose con un semplice «Bah!». Improvvisamente, ricordandomi di quella conversazione, mi è venuto in mente che quest'anno cade il decimo anniversario della caduta del comu¬ nismo: la «rivoluzione di velluto» del 1989. Ma loro - anzi, noi - parliamo come se vivessimo ancora ai tempi di Tito. O di Ceaucescu, se fa una differenza. Anche allora cercavamo d'indovinare malattie e operazioni, prestando orecchio alle informazioni «confidenziali» su trattamenti miracolosi, e chiedendoci quanto ancora avrebbero potuto tirare avanti. Il fatto che Tito fosse rimasto in coma per un bel po' prima della morte era stato tenuto segreto per molti mesi. Ora, dieci anni dopo Ceaucescu e venti dopo Tito, ci appassioniamo alle stesse arti divinatorie, leggendo segni nel cielo, nei fagioli, nei fondi del caffè. Cerchiamo disperatamente di capire la verità dallo schermo tv, dal colore delle loro facce, dal tremore delle loro voci, dai chili che hanno perso o acquistato. Come allora, la verità non vive qui. Mi sento come se fossimo parte di un'operetta. Dieci anni fa qualcuno scrisse il testo, mise sù la scena, distribuì ruoli e costumi e iniziò a dirigerci. E continua ancora. Negli Stati Uniti sarebbe una sit-com, una telenovela. Ma qui è teatro storico. È cominciato come un dramma, è culminato in una tragedia e ora è solo un'operetta sul punto di scadere in farsa. In Croazia l'intera popolazione, quasi cinque milioni di persone, partecipa alla recita. Eppure il peggio è che nessuno ci ha obbligati, ci siamo allegramente affrettati a prendervi parte e abbiamo persino nominato il direttore. In cucina, dopo il telegiornale, l'atmosfera è sommessa. C'è un senso di impotenza, un certo fatalismo. Così come, forse, accade nella cucina della mia amica a Belgrado. E' come se qui il destino sia la biologia, come se la gente non potesse far altro che star seduta ed aspettare che la natura faccia il lavoro per conto loro. Dieci anni dopo, vedo che viviamo tutti in una specie di paralisi. Aspettiamo e ci chiediamo cosa davvero è cambiato. E cosa no. Molte cose sono cambiate in questo periodo, ma qui non c'è stata rivoluzione. Il potere politico è cambiato, va bene, ma quel che abbiamo avuto in cambio è una dittatura legittimata democraticamente. Un bluff. Una menzogna. Una sciarada. Poi la guerra, iniziata perché l'elite serba voleva mantenere il potere. L'ha mantenuto lungo tutta la guerra, e Milosevic è ancora lì. E Tudjman pure. I croati, come i serbi, di fatto vivono ancora in regimi monopartitici. Anche se i partiti hanno ora nomi diversi, la loro essenza comunista non è cambiata molto. Soprattutto non è cambiata la mentalità di chi è al potere e quella di chi ce li mantiene. E ciò malgrado il fatto che gli strumenti per il cambiamento - le istituzioni democratiche - siano state stabilite, almeno formalmente. Se solo la gente potesse credere in esse, e imparasse a usarle... Forse deve prima credere di poter provocare il cambiamento, un cambiamento diverso.