Caselli: fiero della procura di Palermo di Francesco Grignetti

Caselli: fiero della procura di Palermo L'ex procuratore capo: è stata un'indagine su fotti specifici, ma rispetto questa sentenza Caselli: fiero della procura di Palermo «Applicata la legge secondo iprincipi di uguaglianza» Francesco Grignetti ROMA Dopo Palermo, immediata è ripartita la polemica, durissima, sul ruolo della magistratura in Italia. Il primo a venire chiamato in causa è Giancarlo Caselli, l'ex procuratore capo, attuale direttore delle carceri. Inizialmente il magistrato non vuole fare commenti. Poi osserva l'infiammarsi delle discussioni e ci ripensa: «Sono orgoglioso - fa sapere - di aver lavorato alla procura di Palermo accanto a colleghi che, sia pure tra rischi gravissimi e permanenti, hanno assolto la loro funzione applicando la Costituzione e le leggi della Repubblica secondo principi di uguaglianza, indipendentemente dal ceto, dal censo e dal potere delle persone accusate. Quanto alla sentenza del tribunale di Palermo, la rispetto come tutte le altre sentenze». Da notare il riferimento fiero al processo per il «potente». E parlando ai suoi collaboratori aggiunge: «Comunque non abbiamo fatto un processo alla storia ma su fatti specifici». L'assoluzione per il senatore a vita, però, rilancia il dibattito interno, che potrebbe anche essere lacerante, tra giudici. Il presidente dell'associazione nazionale magistrati, Antonio Martone, ha indetto su due piedi una riunione straordinaria del direttivo dell'associazione «per riflettere serenamente su contenuto, limiti, ambito e natura dell'intervento giurisdizionale». Sia pure obliquamente, il presidente dell'Anni è critico con certi eccessi delle procure: «C'è una raccomandazione che vado facendo da tempo: nessun magistrato, inquirente o giudicante, deve sposare le proprie decisioni o i propri provvedimenti. Bisogna staccare la persona dal processo». Vuole dire che i magistrati si innamorano delle loro tesi? «Dico che c'è una eccessiva personalizzazione delle funzioni giurisdizionali. Difatti oggi che si dice? "Smentita la tesi accusatoria di Caselli". Si dovrebbe dire: "La tesi accusatoria dell'ufficio di Palermo". Può darsi che altri, su questa questione della personalizzazione, la pensino in maniera differente. Io forse lo dico perché sono un civilista e ho il principio del contraddittorio nel midollo». E infatti, a sentire Vittorio Borraccetti, segretario di Magistratura democratica, ci si trova subito in una prospettiva diversa. Difende integralmente il lavoro della Procura di Palermo e aggiunge: «I pubblici ministeri non investono nel processo la propria legittimazione e credibilità. Non siamo in un sistema come quello statunitense dove sono responsabili dell'esito. In Italia i pm non perseguono il successo ad ogni costo: fanno quello che devono fare, poi spetta al giudice l'ultima parola». L'accusa che incombe sui magistrati palermitani, però, è di avere invaso il terreno, oltre che dei politici, anche degli storici. «E' chiaro - replica Mario Almerighi, leader della corrente Movimenti riuniti, generalmente considerata la più "giustizialista" - che la storia non la fanno i magistrati. La verità processuale può benissimo non coincidere con quella storica. E' da circa venti anni che la magistratura soffre di una sorta di delega impropria sul piano politico. Adesso addirittura sul piano storico? E' una mistificazione. Nei tribunali si verifica se ci sono prove o se non ci sono. Come è accaduto nel caso di Andreotti. Non si può strumentalizzare questa sentenza in relazione a una ricostruzione storica». Eppure a suo tempo fu pubblicato la richiesta di rinvio a giudizio con il titolo «La vera storia d'Italia». Molti ne erano davvero convinti. «Guardi, una ricostruzione di fatti può anche essere riutilizzata dagli storici. Ma tutto qui. E' come quando sento dire: la sentenza restituisce credibilità politica a venti anni di storia politica. Che vuol dire? Voglio fare un esempio personale: di recente ho mandato assolto De Michelis per un'accusa di tangenti in Albania. Non c'erano prove ed era giusto che il magistrato Almerighi lo assolvesse. Però il cittadino Almerighi non è uscito trasformato da quel processo. Il mio giudizio sul craxismo resta quel- lo di prima». Anche Claudio Castelli, segretario dell'Anni, si dice «preoccupato dall'enfatizzazione di una serie di significati che vanno oltre la questione giuridica. Se la sentenza diventa valutazione anche etica, è pericolosissimo e sbagliato. La magistratura non può essere custode e arbitra dei valori. Lo stesso vale per la storia e per la politica». Inutile negare però che intorno a questo processo c'era un carico di attese particolari. «Era sbagliato prima, è sbagliato adesso». Ma la magistratura non ha una un'autocritica da fare? «Non credo che qualcuno si sia mai sentito salvatore della patria. Però, forse, in altre epoche, quando la magistratura è stata caricata di funzioni improprie, si è sbagliato a non dire subito che era un errore. Sì, forse qualcuno è caduto nella lusinga». E c'è chi è più drastico. Giuseppe Di Lello, già nel pool antimafia con Falcone e Borsellino, oggi è un eurodeputato di Rifondazione. I pm palermitani, dice, hanno «sbagliato» ad appoggiarsi su un pentito screditato come Di Maggio. Soprattuto ritiene che sia un «errore di prospettiva di quanti ritenevano che la lotta alla mafia debba essere collegata alle aule di giustizia. Dev'essere invece una lotta essenzialmente politica. C'è ora da ripensare l'Antimafia e ricostruirla dalle sue ceneri». Riparte durissima la polemica sul ruolo della magistratura Il presidente Martone è contro gli eccessi di alcuni giudici: non devono sposare i provvedimenti L'accusa è di aver invaso il terreno degli storici: «E' pericolosissimo caricare questo verdetto di errate valutazioni etiche e politiche» I pm Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte durante la lettura della sentenza

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