Umiliani, il maestro

Umiliani, il maestro Umiliani, il maestro COME ci ha insegnato John Lurie chiamando il suo gruppo Lounge Lizard, il «lounge» indica la zona dove si beve, nei bar: una zona che lui deve amare in modo particolare, per autodefinirsi «lucertola da bar» assieme ai suoi collaboratori. La musica di John Lurie ha però poca attinenza con il genere musicale lounge, ultimamente molto di moda al punto di meritarsi uno spazio a Musica 2000. Il lounge prevede una centralità delle tastiere, una musica che si conserva morbida, senza grandi sonorità e con una naturale vocazione per l'essere destinata al sottofondo sonoro: e ha trovato la sua massima espressione nelle colonne sonore dei film italiani tra la fine degli Anni Sessanta e la metà degli Anni Settanta, soprattutto grazie all'opera di Piero Umiliani. La filmografia di Umiliani comprende quasi duecento film, alcuni dei quali di grandissimo successo (uno tra tutti: «I soliti ignoti»), ma non c'è dubbio che le sue cose più memorabili sono proprio quelle realizzate, magari in gran fetta, per il cinema di genere, da «Reverendo Colt» a «La dottoressa del distretto militare». Un esempio spiega molto meglio cosa intendiamo per musica lounge di sottofondo. C'è un piccolo film dello specialista Mario Bava che si intitola «Cinque bambole per la luna d'agosto» e che è stato realizzato nel 1970 sulla base di una sceneggiatura che ricorda «Dieci piccoli indiani» ma in chiave decisa¬ mente erotica. La lunga scena iniziale non prevede neanche una battuta di dialogo: in una moderna e lussuosa villa in riva al mare un gruppo di amici di chiara estrazione borghese sorseggia il whisky e osserva il dimenarsi di Edwige Fenech, una delle interpreti femminili, che si contorce al ritmo morbido di una musica sexy tutta organo e (poca) batteria. Che differenza con il contemporaneo rock, che infatti è definito da Francesco De Gregori «una musica tutta chitarra e batteria». Nei film, il suono dell'organo si interrompe improvvisamente perché manca la luce, nel buio echeggia un urlo e, quando la luce ritorna, un cadavere femminile (ma forse non è un cadavere) sconvolge la pace borghese, mentre organo e (poca) batteria riprendono l'accompagnamento e dicono che è tornata la normalità. Nei film moriranno tutti, ma l'organo continuerà impietoso a suonare la musica di Piero Umiliani. In questo caso, si capisce veramente bene l'urgenza di un revival: in Italia, proprio in quegli anni, si verificava la rottura (poi diventata definitiva) tra cinema popolare e cinema d'autore, mentre fino a quel momento gli autori erano stati anche i registi dei film di maggiore successo. La vulgata politico-musicale dell'epoca ci tramanda il progressive rock della PFM, i primi cantautori, l'esplodere del rock padano di Guerini e un De Andre che si distacca sempre più dal modello Brassens per diventare il primo etno-autore italiano. Ma è sempre bene ricordare che, oltre a «I pugni in tasca», c'era anche «Django sfida Sartana». E anche per quest'ultimo film, esordio nel cinema di Pasquale Squit.ieri con Gianni Amelio come aiuto-regista, la musica è stata curata da Piero Umiliani: e non è certo un caso. Stefano Della Casa

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