«Il processo? Lezione immensa» di Igor Man

«Il processo? Lezione immensa» «Ti rendi conto che sei come gli altri, prendi atto che non vale essere stato Presidente o ministro» «Il processo? Lezione immensa» La vigilia più lunga del senatore Igor Man CONDANNATO-Assolto. La risposta arriverà oggi, 23 di ottobre dell'Anno del Signore 1999, ad ore 11. L'imputato, lui, Andreotti Giulio, l'avrà dal televisore che troneggia nel suo studio di Senatore a vita, in Palazzo Giustiniani. In quel preciso momento il vecchio cronista non guarderà lo schermo tv bensì il volto di Andreotti, attento a cogliere la sua reazione non immaginandone nessuna, quale che possa essere la sentenza del tribunale di Palermo. E questo poiché l'uomo Andreotti da quando è cominciato il suo calvario giudiziario («'sto strazio», gli è scappato detto) è come se avesse posto sul suo enigmatico volto una maschera. Immutabile. Quella e soltanto quella che abbiam visto durante questi interminabili sei anni scanditi dalle udienze di due processi due. L'hanno assolto a Perugia dall'accusa infame di aver mandato a morte il povero giornalista Pecorelli, e ascoltando la sentenza sul suo viso è passata una rapida smorfia difficile da definire. Più-tardi Andreotti ha sorriso, ha pronunciato battute, ma era come se quelle arguzie e quei sorrisi venissero non da lui, piuttosto da un'altra persona. Misteriosa. Indecifrabile. (Forse il vero Andreotti). Chi scrive ha intervistato tante ma proprio tante persone, in cinquant'anni e passa di giornalismo: dall'anonimo Gì ferito in Vietman a Padre Pio, dal collerico Kruscev alla scabra Madre Teresa, dalla rocciosa Golda Meir al Che, visionario duro eccetera. Ascoltandoli, guardandoli ho colto in loro infinite sfumature: di voce e d'espressione. Andreotti, invece, mi fa pensare a quel famoso attore di Hollywood, Victor Mature, l'interprete del cinemascope La Tunica, il quale al regista che gli chiedeva non so quale espressione, rispose: «Io ne ho due soltanto, Bill: una di fronte, una di profilo». E tuttavia c'è slata una volta (per mia esperienza) che Giulio Andreotti s'è lasciato andare. Esattamente il 21 di maggio del 1994, il giorno in cui la procura di Palermo chiose che il Senatore fosse rinviato a giudizio «per concorso in associazione per delinquere semplice e di stampo mafioso». La sera di quel giorno, Andreotti mi ricevette nel suo ufficio di piazza in Lucina. Parlammo soli, in quel piccolo stadio. Lungamente. "(Qui va dettò che Andreotti ed io ci siamo conosciuti nell'immediato dopoguerra, quand'egli veniva, alle 10 della sera, con De Gasperi a vedere il bozzone della prima pagina de II Popolo diretto da Guido Gonella. Allora tutti i giornali si stampavano nella tipografia del Giornale d'Italia. Io impaginavo Il Tempo). Durante la sua lunghissima e prestigiosa carriera politica, rari sono stati fra di noi gli incontri, e tutti ufficiali. Quando, però, egli era ministro degli Esteri l'ho accompagnato in non poche missioni mediorientali. Quei suoi viaggi, molti dei quali importanti davvero, ci han dato modo di parlare anche di quando eravamo giovanissimi, nel dopoguerra appunto. Sulla Stampa di domani troverete il resoconto del vecchio cronista su «Andreotti alle 11»: mentre ascolta la sentenza palermitana, e dopo. Ma ora che scrivo di lui alla vigilia d'un accadimento che, quale sia la sentenza, possiamo tranquillamente definire «storico» poiché segnerà un momentum etico-politico nel declinante «secolo breve», al pari dell'impeachment di Nixon e dell'assoluzione di Clinton -, mentre rileggo gli appunti dell'incontro del 21 di maggio del 1994, m'accorgo che, forse, dico forse, quel giorno incappai nell'Andreotti vero. Quell'incontro-intervista si apre con la logora domanda, un po' cretina ma d'obbligo; come si sente? «Come mi sento, cosa provo? No, la sua domanda questa volta non è cretina. E la risposta è tanto facile da apparire persino banale: amarezza e sollievo fanno a pugni dentro di me. Pensarmi in veste d'imputato è un incubo, un fatto incredibile ed invece reale. Crudele. D'altra parte, sapere che conoscerò, infine, e con assoluta precisione, quali sono gli addebiti che mi si rovesciano addosso, mi garantisce la consapevolezza di dimostrarne la fatuità, l'inesistenza». (Sei anni fa Andreotti confidava nell'archiviazione, nel proscioglimento in istruttoria). L'Andreotti vero, tuttavia, vien fuori a mano a mano che le mie domande^ formulate còl rispetto dovuto a una persona in difficoltà, lo incalzano: senta, Presidente, ho letto che lei ha subito un confronto o forse più di uno, con dei pentiti che le rovesciano addosso accuse terribili. «Sì, un confronto, certo, con quel Di Maggio che vorrebbe ch'io avessi incontrato il signor Salvo in casa sua, dove, mi pare, abbia detto lui avrebbe accompagnato qualcuno, sì, Riina, mi pare. Cosa vuoie che le dica: mi sono indignato e magari infuriato con quell'uomo e ho dovuto far forza su di me per dominarmi... e tuttavia, mi creda, quel giovinetto mi ha fatto pena. Recitava una parte, lo si vedeva bene. E anche maldestramente. Poveraccio». Parole simili son ricorse più volte nei discorsi di Andreotti, in questi ultimi anni senza misericordia per lui. Vedremo subito come e dove (forse) si riveli l'autentico Andreotti. Sia come sia, sulle parole che allora mi disse e che cito - anche queste per filo e per segno, su quest'ultime soprattutto converrà i ifiettere e, in ogni caso, domandarsi se l'Androotti-doc non sia quello che appare bensì colui che come in trance mi disse in quel pomeriggio lontano: «... ti invade un sentimento contraddittorio, fatto di infiniti stati d'animo. Indignazione, senso di impotenza, rabbia, sgomento, rivolta morale da un lato. Dall'altro, però, t'accorgi di ricevere una lezione. Immensa. Ti renili conto che sei un uomo come gli altri. Prendi atto che non vale essere stato presidente o ministro, ti viene ricordato fors'anche con una certa violenza che sei soltanto un uomo come tanti. Una grande lezione spirituale (...) Tutta questa vicenda è senz'altro terrìbile, allucinante per molti versi. A volte è come vedessi, sdoppiato, un me stesso in pena, diverso, inimmaginabile e tuttavia questa non certo piacevole congiuntura aiuta. Mi creda. Aiuta ad avere una concezione più equilibrata del sovrannaturale. Voglio dire che capita di accorgersi che essere, diciamo, in regola con il culto - andare a Messa, confessarsi, pregare eccetera -, è altra cosa dall'accostarsi spiritualmente, con cuore pulito, al mistero della ledei La vita politica, l'attività ufficiale, diciamo pure la lunga routine amministrativa, sia pure ad alto livello, finiscono col burocratizzare la pratica religiosa. Di ciò mi sono reso conto in conseguenza della disgrazia, si che ora riesco a pregare come una volta, a meditare, a sentire la spiritualità della vita. E questo mi dà una forza grande». Codesto discorso spiegherebbe come Andreotti sia riuscito a farci credere d'aver vissuto ironicamente tutto il lunghissimo tempo spietato trascorso dal giorno della richiesta di rinvio a giudizio al giorno della sentenza. La vigilia del Senatore AndreOtti è trascorsa secondo l'usata pratica. Business as usuai. Soltanto l'abituale recita del Rosario, con i suoi cari, prima di andare a letto, pare sia stata «particolarmente intensa». Ma tutto ciò, oramai, appartiene al passato. Oggi comincia una nuova storia. Non soltanto per Giulio Andreotti. Disse: «Amarezza e sollievo fanno a pugni dentro di me. Pensarmi in veste di imputato è un incubo, un fatto incredibile e invece reale Crudele. Sapere quali sono gli addebiti che mi si rovesciano addosso mi garantisce la consapevolezza di dimostrarne la fatuità» L'attesa è trascorsa secondo l'antico rituale Soltanto la consueta recita del rosario con i suoi cari è stata particolarmente intensa A fianco e in basso, i pubblici ministeri Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte A fianco, il senatore Giulio Andreotti Oggi ascolterà la sentenza dalla tv a Palazzo Madama

Luoghi citati: Hollywood, Palermo, Perugia