Radici e misteri di una storia infinita di Francesco La Licata

Radici e misteri di una storia infinita IL PROCESSO DEL SECOLO: LE TAPPE DI SEI ANNI D'INCHIESTA Radici e misteri di una storia infinita Dal bacio con Riina alla morte di Lima retroscena Francesco La Licata Inviato a PALERMO CON una qualche enfasi, è stato definito il «processo del secolo». Hanno contribuito all'enfasi, il personaggio posto sott'accusa Giulio Andreotti, l'emblema del potere - e l'arco di tempo che gli investigatori hanno passato ai «raggi x». Trent'anni di cronaca, non solo siciliana, scandagliata da migliaia di detectives: un lungo sentiero lastricalo di stragi e morti, di caduti in una battaglia infinita che i magistrati della Procura di Palermo ricostruiscono in migliaia di carte e i inedia caratterizzano come «La vera storia d'Italia». L'inchiesta che lia pollato sul banco degli imputati il senatore a vita Giulio Andreotti, ex ministro e sette volte presidente de! Consiglio, e «figlia» di un particolarissimo momento della nostra storia recente, e conseguenza di quel ciclone politico-giudiziario che ha fatto esplodere il sistema partitico italiano. ìjb stragi di Capaci e di via D'Amelio, la morte di Falcone e Morseli ino, le successive stragi a Poma, a Firenze e a Milano, hanno rappresentato il presupposto (soprattutto emotivo) jier consentire ciò che in altri tempi non san'bbc stato neppure pensabile: la messa SOtt'accusa per malia di un pezzo delle Istituzioni. Ed era talmente sotto choc, il sistema politico del dopo stragi, clic la lama della magistratura e potuta entrare come coltello nel burro. La richiesta di autorizzazione a procedere contro Giulio Andreotti, fu concessa quasi «automaticamente», fu lo stesso indagato che la sollecito, accettando le regole del gioco e consapevole, Coree, dell'impatto che un eventuale diniego del Parlamento avrebbe potuto avere soprattutto noi confronti di un'opinione pubblica provata dagli scandali (le inchiste sulla corruzione) e tramortita per i lutti provocati dalle stragi. Comincia, ufficialmente, nel marzo 1993 questo «film». E' il 27 marzo, quando Giovanni Spadolini comunica a Giulio Andreotti che i magistrati di Palermo hanno avanzalo una richiesta di autorizzazione a procedere. Il procuratore Caselli è a Palermo da tre mesi e 12 giorni, accolto come una sorta di «uomo della provvidenza» mandato per liberare la Sicilia dalla mafia. Un carisma certamente potenziato dalla cattura del «padrino», Totò Riina, che - siamo a gennaio, pochi giorni dopo l'insediamento del procurato¬ re - cade nella rete di un pentito che farà molto parlare di se: Halduccio Di Maggio, ex «capofamiglia» di San Giuseppe .Iato e uomo di fiducia del capo dei capi. Ma le radici della «storia infinita» affondano ancora indietro nel tempo. Una data, in particolare, viene considerata l'inizio di tutto: 11 settembre 1992, giorno in cui don Masino Buscetta, dagli Stati Uniti, accetta di parlare dell'argomento fino a quel momento considerato tabù. Buscetta svela il nome che non aveva mai voluto pronunziare, neppure a Giovanni Falcone: Giulio Andreotti, il «referente» romano di Cosa Nostra. L'ex mafioso pentito motiva la sua scelta con la necessità di «liberarsi la coscienza» anche per onorare la memoria di Giovanni Falcone. Il pentito parla coi magistrati palermitani ed è, quello, il via per un lavoro investigativo di proporzioni incredibili: si aggiungono altri pentiti, si interrogano centinaia di persone, si cercano atti e documenti in tutto il territorio nazionale, si indaga per trovare riscontri alle stupefacenti rivelazioni dei collaboratori che raccontano un Andreotti avvinghiato a Cosa Nostra, fino ad incontrarsi - in piii d'una occasione - con personaggi di spicco dell'organizzazione, boss del calibro di Stefano Bontade, Gaetano Badalamenti, Totò Riina e Nitto Santapaola. Anni di investigazioni, che il senatore ha sempre bollato come interessale a suggerite da qualche misterioso «puparo», per approdare al dibattimento: un palcoscenico che ha visto da un Iato i pm elencare tutte le accuse con martellante pignoleria, dall'altro gli avvocati del senatore controbattere punto per punto, fino a non esitare a definire il processo una scatola vuota, le «cosiddette prave» solo «sug^est ivi teoremi». E non sono mancati i colpi di scena. Il primo riguarda certamente il famoso «bacio» di Andreotti con Riina. La Procura ha già inviato la richiesta a Roma, quando Balduccio Di Maggio (siamo al 16 aprile del '93) consegna ai magistrati un racconto che lascia di stucco: Andreotti e Riina si sono incontrati e si sono baciati. Dice di aver visto la scena coi propri occhi: in casa di Ignazio Salvo, all'epoca agli arresti domiciliari ( 1987), nell'appartamento di via della Libertà a Palermo. E' una bomba, quel racconto. E lascia il segno, tanto che, da quel momento, il processo Andreotti diventa il processo del bacio. 1121 maggio 1994 la procura chiede il rinvio a giudizio, il 2 marzo dell'anno successivo il gup, Agostino Gristina, accoglie la richiesta. Il processo ha inizio il 26 settembre del 1995 nell'aula bunker dell'Ucciardone, la stessa che ospitò il maxipi-ocesso di Giovanni Falcone. Già, il «processone», la causa principale delle «sventure» del senatore Andreotti, chiamato da Cosa nostra secondo i pm Scarpinato, Lo Forte e Natoli - ad intervenire per bloccare gli effetti devastanti di quelle condanne. Chiamato per mezzo del capocorrente palermitano, quel Salvo Lima, ex sindaco di Palermo, molt. a dentro nell'onorata società e amico dei cugini Ignazio e Nino Salvo. L'impianto accusatorio ruota attorno all'omicidio di Salvo Lima, abbattuto a revolverate a pochi passi dalla sua villa di Mondello, nel marzo del 1992. Un evento che fa accorrere a Palermo il senatore. Come dimenticare il volto terreo di Andreotti ai funerali di Lima? Come dimenticare il suo sgomento di fronte a quell'omicidio? Andreotti venne a Palermo e parlò in difesa di Lima. L'inizio del dibattimento coincide con l'inizio della guerra personale del sen. Andreotti in difesa del proprio onore e di quarant'anni di attività politica. Nell'aula della V sezione penale, presieduta da Francesco Ingargiola, le indagini vengono rivisitate, atto dopo atto. Le tesi dell'accusa contrastate dai difensori, Giulia Bongiorno, Franco Coppi e Gioacchino Sbacchi (Odoardo Asca¬ ri si è ritirato dalla scena). In quattro anni di dibattimento si sono confrontate tesi contrapposte su altrettanti capitoli di questa «storia infinita». Ecco i principali. La corrente andreottiana.. L'accusa si è soffermata molto sulla figura del de Salvo Lima, figlio dell'«uomo d'onore» Vincenzo. La sua adesione alla corrente andreottiana, col considerevole pacchetto di voti di cui disponeva, viene presentata come l'inizio delle «fortune» (l'uscita dal «ghetto laziale») di Andreotti e de! «trentennale rapporto fiduciario con Lima». I difensori hanno obiettato che i rapporti tra i due erano di natura esclusivamente politica. Il prestigio nazionale di Andreotti, inoltre, non aveva bisogno dell'apporto di lima. I rapporti con Ciancimino. Andreotti, a giudizio dei pm, ha intrattenuto rapporti anche con l'«impre- sentabile» Vito Ciancimino, uomo dell'ala «corleonese» di Cosa Nostra. I magistrati sostengono che gli incontri, organizzati per mantenere il predominio della corrente siciliana, sono stati più dei due ammessi dal senatore. Secondo gli avvocati, invece, il senatore non si è mai occupato di questioni politiche locali. Gli incontri con Ciancimino sono stati due ed occasionali. I rapporti coi Salvo. Andreotti li ha sempre negati. Per i magistrati, invece, non vi sono dubbi: i cugini mafiosi di Salemi erano i sostenitori della corrente. Il senatore usava, nelle sue trasferte palermitane l'auto blindata messa a disposizione dai Salvo. Avevano persino lo stesso sarto: il romano Litrico, indicato nella requisitoria come una sorta di «status-symbol» che racchiudeva l'intera corrente. Nino Salvo disponeva, secondo i pm, del numero della presidenza del Consiglio. Il cugino, Ignazio, nella sua agenda annotava un numero romano di Andreotti, alla voce «Giulio». E poi tanti altri «particolari», non ultimo il famoso vassoio d'argento che Andrectti avrebbe inviato come regalo di nozze alla figlia di Nino Salvo. Per i legali il vassoio «non è mai esistito» e il notaio Albano, indicato come il tramite-acquirente utilizzato dal senatore, ha spiegato che l'oggetto era un suo personale regalo ai coniugi Sangiorgi-Salvo. La «blindata» veniva chiesta in prestito ai Salvo dalla polizia e, comunque, a ciò provvedeva Salvo Lima. Gli incontri coi boss. «Non c'è uno straccetto di prova», ha detto lo stesso Andreotti. Il bacio? «Se fossi andato in casa di Salvo agli arresti domiciliari per avere un incontro effusivo con Riina latitante, non dovreste condannarmi ma inviarmi in un ospedale psichiatrico». Ouesti i temi strettamente «processuali», che ovviamente hanno avuto un peso relativo nel dibattito nazionale monopolizzato, per via di interessi superiori allo stesso destino di Andreotti, dalla grande querelle sul pentitismo, sulla gestione dei pentiti e sul ruolo «politico» della magistratura. Il processo ha pesato molto sulla «politica giudiziaria»: basti considerare che la legge sui pentiti, per anni dimenticata, è stata velocemente approvata dopo l'assoluzione della Corte d'Assise di Perugia. E basti pensare, ancora, al tentativo - fino all'ultimo - di collegarla alla riforma dell'art. 192, che dà dignità di prova alle dichiarazioni incrociate di più collaboratori di giustizia. La storia infinita, dunque, non sembra poter concludersi con la sentenza di oggi. Sopra la corte che domani mattina emetterà il verdetto su Andreotti. A sinistra un'immagine dell'omicidio Lima, avvenuto nel marzo del 1992. L'europarlamentare fu ucciso a revolverate a pochi passi dalla sua villa di Mondello tu ; lAif ili