Fusilli d'Italia di Marco Belpoliti

Fusilli d'Italia Dai banchetti dell'antica Roma ai panini imbottiti di oggi: in un libro la storia della cucina nel nostro Paese Fusilli d'Italia Marco Belpoliti IFI ITALIA delle cento città e | dei mille campanili è anche l'Italia delle cento cucine e | delle mille ricette». La nostra I Istoria politica, segnata dal particolarismo, in cucina si rivela una grandissima dote. Per secoli la Penisola ha offerto agli occhi e al palato dei visitatori una varietà enorme di cibi e vivande, tanto da generare un sospetto: ma esisterà davvero una cucina italiana, una cucina nazionale? La risposta che forniscono Alberto Capatti e Massimo Montanari, studiosi di storia alimentare e culinaria, in La cucina italiana (Laterza, pp.406, lire 38.000), è decisamente positiva. SI, esiste una storia della cucina italiana, fondata sulla cultura delle singole città, «luogo strategico di costruzione e trasmissione di una cultura gastronomica al tempo stesso locale e nazionale». In Italia il patrimonio gastronomico di prodotti e ricette è tradizionalmente legato alle identità cittadine: la mostarda di Cremona, gli spaghetti di Napoli, il radicchio di Treviso, l'olio di Bitonto, il pesce spada di Messina, le anguille del Garda, le lenticchie di Gela, il pane del Piceno, il sale di Ostia, i cavoli di Ariccia, le rape di Norcia... La città significa il «territorio» che la circonda e che vi fa riferimento. L'altro carattere di questa cucina, il suo baricentro e punto indiscusso di riferimento per almeno dieci secoli, non né la corte né il ristorante, bensì la casa, luogo dove si cucina, si redigono ricette, si trasmettono i gusti e si sperimenta in una continua tensione tra tradizione e innovazione. E' questo luogo che fa della cucina italiana qualcosa di originale, insieme alla propria vocazione a punto di congiunzione tra differenti tradizioni geografiche e culturali. In questo libro, che è una summa completa e assai ricca di decine e decine di studi precedenti, nonché l'organizzazione ragionata di un materiale originale, gli autori spiegano come si è formata questa cucina italiana, allo stesso tempo policentrica e unitaria, figlia, almeno alle sue origini, di due tradizioni: romana e germanica. La prima si identifica con il grano, vite, e ulivo, simboli di una civiltà contadina e agricola, mentre la seconda, frutto dei passaggi più o meno stanziali dei popoli barbarici, vive in stretta simbiosi con la foresta, in cui si caccia, si pascolano le greggi, si raccolgono la gran parte dei prodotti alimentari. Pane, vino e olio contrapposti a carne, latte e burro. Ma anche il gusto agrodolce della cucina imperiale romana, fondata sull'aceto e il miele, su cui s'innesta la cultura gastronomica araba che introduce due prodotti fondamentali, gli agrumi e lo zucchero, ma soprattutto le spezie (pepe, zenzero, noce moscata) che dominano per secoli l'Europa, per tramontare in modo repentino tra il XIV e il XV secolo. Dalla nuova nozione culturale e geografica che possiamo chiamare Europa, durante l'alto Medioevo - dominato però da un'accentuata divisione tra Nord e Mediterraneo -, si passa a una cultura alimentare più italiana che ha nei libri di cucina del XIII secolo la sua più precisa definizione. Nel Cinquecento, dal punto di vista culinario, esistono tre Italie: la Lombardia, cioè l'Italia padana; l'Italia granducale e pontificia; e il «Regno», che comprende tutto il Sud, con la Sicilia, divisione che si riassume in tre città gastronomi¬ che: Milano, Roma, Napoli. Ma già nel XVII secolo la stagione dei ricettari «nazionali» sembra conclusa a favore di una diversa accentuazione delle diversità regionali, che per almeno due secoli, fino alla Scienza in cucina e l'Arte di man giar bene di Pellegrino Artusi sarà il lcit motiv della nostra storia culinaria. E' in questo periodo che il Piemonte, fino a quel momento ai margini della storia gastronomica italiana, emerge dal suo silenzio e diventa il tramite con cui si diffondo in Italia la cucina francese, che conquista poco a poco le capitali europee e detta l'unificazione di piatti e servizi. In questo modo si formano i tre modelli a cui, da quel momento in poi, la nostra cucina farà riferimento: locale, nazionale, intemazionale. I ricettari hanno in questo un peso importante e i due autori dedicano a essi alcune origi¬ nali pagine - la storia dei ricettari stessi, l'ordine delle vivande, le parole e la lingua usate - che formano il contrappeso di quelle dedicate alla formazione del gusto e dell'appetito, tanto da formare un quadro completo sia nell'aspetto storico che nelle vicende del costume, passando per la storia delle singole vivande, dei prodotti base (cipolla, pomodoro, patata, ecc.), degli strumenti e dell'organizzazione tecnolo- gica. Uno dei caratteri originali della cucina italiana è la centralità delle verdure, che spiega molto bene come in cucina l'innovazione, l'invenzione stessa dei cibi e delle ricette, non spetti alla «cucina alta» (signorile, aristocratica, nobiliare) ma alla «cucina bassa»: è la povertà ad aguzzare l'ingegno, così che la «cucina della fame» è quella più ricca di creazioni originali. Perseceli la coppia dolce/salato ha visto contrapposte rispettivamente la cucina d'elite e quella del popolo. Il gusto, scrivono gli autori, «come ogni aspetto della cultura umana, è un prodotto della storia e si modifica nel tempo, così come è diverso nello spazio». Parlando di cucina, storia e geografia, discipline sorelle, si fondono, e in tal modo, seguendo Caparti c Montanari, possiamo vedere come la meridionalizzaziono della gastronomia sia diventato il vero evento culinario dell'ultimo secolo che in Italia ha come protagoniste la pasta (si afferma a Napoli solo nel Seicento, come effetto della carestia) e la pizza (forse di invenzione araba). E' la risalita verso il Noni che Nel giorno della civetta Leonardo Sciascia attribuiva invece alla palma e al caffè. Le pagine dedicato all'invenzione della pasta sono molto bolle. Vi si racconta del passaggio dalla pasta come contorno (la usavano già i romani) alla pasta come pietanza a sé sia nella tavola popolare che nella cucina borghese, e delle paste ripiene, vera fucina creativa della cultura popolare: torta, pasticcio, pastello, coppo, tutti sinonimi della stessa ricetta che consiste nell'usare ingredienti sempre diversi tra strati di sfoglie di pasta. Le torte di verdura sono uno dogli elementi della cucina medievale, e divengono poi sfoglie a strati sottili, lo crostate, contrapposto al pasticcio, secondo il ricettario dello Scappi. Accanto a una storia degli ingredienti e dei piatti, Capatti e Montanari hanno scritto anche una breve storia della ristorazione, della distribuzione e della sequenza dolio vivandi.1, con pagine sui colori degli abiti di cuochi e camerieri, sui menù, sul passaggio dall'osteria alla trattoria e infine al ristorante, dove, al contrario della tavola rinascimentale - in cui i piatti venivano posti tutti sul tavolo e ci sei-viva liberamente - o della cucina ottocentesca - dove l'anfitrione docitlo per sé e per i commensali -, si usa il servizio detto alla russa: ogni cliente è anfitrione di se stosso. Ma ci sono anche interessanti pagine sul rapporto tra vivando calde e fredde, o quelle sulla morte dell'antipasto e la resurrezione del formaggio, o ancora sul rapporto di opposizione e rivalità tra la figura del cuoco e quella della massaia. Ma qua! è la situazione attuale? La centralità della casa sembra tramontata a causa dei ritmi della vita lavorai iva e famigliare, della drastica riduzione della disponibilità di tempo per cucinare: «11 numero dello cuoche imperite, incerte, monotone, cresce col lavoro salariato, al pari di quello dei divoratori di panini, dei dilettanti isterici, dei gastronomi domenicali. L'ora di un' arte androgina è cosi cominciata. Nell'incertezza». Sarà per questo che oggi sui giornali prosperano le rubriche dei gourmet? la cultura gastronomica nazionale è fondata mi patrimonio di cibi e ricette proveniente dalle identità cittadine i r i lii II ti i ri iB 111 ffiii "n flhi7 Un americano a Roma (1954). Nel film di Steno ad un certo punto Sordi, alias Nando Mericoni, che vuole fare l'americano si prepara un pasto a stelle strisce, ma non riesce a mangiarlo: dà tutto al gatto e si abbuffa con gli spaghetti della mamma. i r i lii II ti i ri iB 111 ffiii "n flhi7 Un americano a Roma (1954). Nel film di Steno ad un certo punto Sordi, alias Nando Mericoni, che vuole fare l'americano si prepara un pasto a stelle strisce, ma non riesce a mangiarlo: dà tutto al gatto e si abbuffa con gli spaghetti della mamma. Big Night ( 1996). Nel film di Tucci due fratelli emigrati nel New Jersey Anni 50 cercano di far fortuna con i timballi della cucina abruzzese. La foto a centro pagina è di Claudio Mainardi, dalla rivista «La gola»