«Monte Bianco, ecco quel die resta di un inferno» di Stefano Mancini

«Monte Bianco, ecco quel die resta di un inferno» Consentito, per la prima volta, l'accesso al tunnel devastato dal rogo avvenuto il 24 marzo scorso «Monte Bianco, ecco quel die resta di un inferno» Su un muro i segni di 4 mani Stefano Mancini inviato a COURMAYEUR Sul piazzale del traforo del Monte Bianco sono rimaste sei auto e un silenzio irreale ovattato dalla nebbia. Duecentonove giorni dopo il disastro, dopo i trentanove morti carbonizzati, non c'è nient'altro davanti alla galleria che dal '65 collega Italia e Francia. Non una lapide, non un cartello o un fiore. Soltanto una targa in memoria di Pierlucio Tinazzi detto Spadino, sorvegliante-motociclista della società del Traforo, morto mentre tentava di salvare la vita agli automobilisti intrappolati. E poi le transenne. Da allora non è entrato più nessuno, tranne tecnici e magistrati. Ieri mattina per un'ora sono stati tolti i sigilli. «Consentiamo alle televisioni di realizzare immagini di repertorio», è la fredda giustificazione della Sitmb, la società che gestisce il traforo. Possono entrare nove persone dal versante italiano e nove da quello francese. L'incontro è a metà strada, esattamente dove il 24 marzo un Tir belga innescò il rogo da 1200 gradi, fondendo lamiere, volta in cemento, asfalto, porte tagliafuoco, vetrate antincendio, estintori. E riducendo i corpi in cenere. Trentanove la cifra ufficiale, ma nessuno saprà mai se sui camion distrutti si nascondeva qualche clandestino. Si entra dopo aver indossato casco, maschera per respirare, guanti, tuta e stivali. Gli accompagnatori parlano di «elementari norme di sicurezza». La verità è che l'interno non è stato bonficato e tra polveri e fuligine si nascondono i veleni della combustione di batterie, materie plastiche e chissà che altro. Il furgone procede spedito per i primi quattro chilometri, poi rallenta. L'asfalto è deformato, le pareti crepate. La roccia restituisce il calore accumulato: ci sono 23 gradi, rotti dal vento gelido che soffia dal lato italiano. Ancora un chilometro ed è l'inferno, quel che resta dell'inferno. Si procede a piedi, su un lato della galleria, scavalcando pezzi di lamiera sciolti nel cemento ed evitando cavi che pendono dal soffitto e macerie. Sulla parete c'è scritto «moto» e una freccia indica una rientranza nel cemento: lì «Spadino» aveva appoggiato la motocicletta per accompagnare un imprenditore francese dentro un rifugio antincendio. La lamiera è fusa e ha sciolto il cemento. «Spadino» è morto nel rifugio dopo oltre settanta ore di agonia assieme all'uomo che voleva salvare. Su un muro sono rimasti i segni di quattro mani. Quei due uomini hanno urlato la loro disperazione finché le forze li hanno sostenuti. Tutti i mezzi rimasti intrappolati tra le fiamme hanno lasciato l'impronta nel cemento. La più grande è quella del Tir belga carico di farina e margarina, la micidiale miscela incendiaria che ha alimentato le fiam- me per tre giorni. In mezzo alla strada c'è una voragine, sotto si intravedono la canalina di scarico dell'acqua e i tre condotti che immettono aria pura dall'esterno. Sulla volta, uno squarcio largo un metro da cui continuano a cadere pezzi di cemento e roccia. L'asfalto è scomparso. L'odore acre di bruciato attraversa i filtri delle maschere. Usciti dal tunnel si respira di nuovo. «Pensi che il giudice francese vuole ripetere l'incen¬ dio, per capire come è andata. Ma chi ci mandiamo a rischiare la vita per spegnerlo? E i danni all'ambiente e all'economia li pagherà lui? E come facciamo a convincere il vento a soffiare nella stessa direzione?», si chiedono i responsabili della Sitmb. Ma i familiari delle vittime, costituiti in associazione, premono proprio perché la simulazione sia fatta. Dall'inchiesta è emerso che le due persone nel rifugio antincendio sono morte disidratate (e dunque un piccolo serbatoio d'acqua di scorta forse le avrebbe salvate); che una circolare emessa nel 1981 dal ministero dei Trasporti francese consigliava un sistema di aspirazione in galleria più potente di quello in funzione fino al 24 marzo 1999; che nel '73, dopo la simulazione di un incendio in galleria, i pompieri francesi raccomandavano la presenza 24 ore al giorno di quattro vigili del fuoco professionisti nelle due aree di ingresso del traforo (e 26 anni dopo, a traffico triplicato, non ce n'era neanche uno). La Simtb e il governo italiano contano di riaprire il collegamento con la Francia entro l'autunno del '99. «Questo disastro costa alla collettività dei due Paesi 3 miliardi al giorno» spiegano. Se simulazione sarà, i tempi si allungheranno. I lavoratori dell'alta Valle d'Aosta fanno gli scongiuri. Il gestore dell'Autogrill di confine conta sconsolato le tazzine di caffè servite fino alle 11 : «Solo sette, una volta a quest'ora avevo superato le cento». Non ha brioche fresche «perché mi sono stufato di prepararne nove e di buttarne via otto». Sullo scaffale dei giornali sono in vendita tre romanzi, quattro cataloghi delle carte telefoniche e quattro videocassette («Terminator 2 il giorno del giudizio»). L'autunno del Duemila 6 ancora lontano. Sulla volta uno squarcio largo un metro da cui continuano a cadere pezzi di roccia e cemento. Una voragine in mezzo alla strada Due immagini del traforo del Monte Bianco, chiuso dal 24 marzo scorso per l'incendio che ha fatto trentanove vittime

Persone citate: Pierlucio Tinazzi

Luoghi citati: Courmayeur, Francia, Italia, Valle D'aosta