Ma, dopo De Gasperi, i rimpasti portano iella
Ma, dopo De Gasperi, i rimpasti portano iella La storia della Repubblica è fìtta di governi caduti mentre si volevano cambiare solo alcuni ministri Ma, dopo De Gasperi, i rimpasti portano iella Filippo Ceciarelli DICE il saggio: non farai mai il rimpasto; non lo farai mai neanche, o soprattutto, se te lo presentano come «rimpastino». In lettere d'oro o scolpite nella pietra, il presidente del Consiglio si affidi dunque a queste solenni parole. Rimpasto? Un corno. D'Alema non fa eccezione, del resto non sarebbe il primo presidente a scivolare nel baratro della crisi di governo grazie a un rimpastino che si prevede semplice semplice. E' accaduto a personaggi molto più esperti e svegli di lui. Il bello — o il brutto, dipende — è che tutti erano ricorsi al rimpasto, cioè al mutamento della struttura del governo, ma non della formula, proprio per evitare la crisi. «De Gasperi — si legge alla voce "rimpasto" ne "Le parole della politica" di Giovanni Di Capua, tuttora il più completo dizionario di Palazzo — ricorreva al rimpasto per non aprire la crisi. Ma dopo di lui nessun presidente ne ha potuti più proporre». S'intende con successo. La faccenda, anzi, s'è intricata e incanaglita a tal punto da meritarsi una fama, se non decisamente jettatoria, almeno di minaccioso sortilegio. In tre casi, per la precisione, nel suo secondo, quarto e quinto governo, De Gasperi riuscì a pilotare con una certa maestria l'uscita o l'entrata di un po' di scalpitanti ministri, in genere del psli. Ma nel suo sesto governo — estate 1951, dopo una batosta elettorale alle amministrative — il numero dei portafogli da coinvolgere per via dell'ebollizione e degli appetiti delle correnti de, senza contare le dimissioni di Pella, divenne tale da indurre lo statista trentino a rassegnare le dimissioni. Quell'episodio fece scuola, ma evidentemente non fino al punto da cancellare la nozione e la tentazione del rimpasto dall'orizzonte del potere. Così, dopo De Gasperi ci rimisero lo zampino due gattoni di lungo corso come Mario Sceiba e poi Antonio Segni (nel suo caso si trattava di sostituire i repubblicani); quindi anche il prudentissimo e pazientissimo Aldo Moro, che pure nel suo secondo governo era riuscito nel miracolo di imbarcare Amintore Fanfani, e per giunta agli Esteri, dovette disilludersi sulle virtù di questa finta soluzione, di questo male travestito da bene che è il rimpa- sto. Perché un conto è sostituire un ministro che muore o un sottosegretario che finisce pesantemente sotto inchiesta. Quando il giro delle poltrone si allarga — e subito si allarga — è meglio lasciar perdere. Di solito si cominciano a individuare quelli che nel 1989 Craxi, dal Venezuela, definì graziosamente i «pesi morti», cioè i ministri da far fuori. Poi si prosegue con i candidati elio scalpitano e si pavoneggiano. E' inesorabile. Anche solo parlare di rimpasto attizza gli animi: «Fare ì nomi — disse una volta Prodi — eccita la sfida». Aggiunto alla normale sete di potere, il fattore umano arroventa subito l'atmosfera. Un semplice spostamento innesca così un micidiale effettodomino, scatena una catena di voglie, determina una serie di contro-spostamenti a cascata. Insomma: si sa come si inizia, ma non come va a finire. A quel punto, tanto vale aprire la crisi e procedere alla formazione di un'altra coalizione. Nel 1982 il secondo governo Spadolini nacque come la fotocopia esatta di quello precedente. Otto anni dopo, la sostituzione in blocco, da parte di Andreotti, di cinque ministri della sinistra de impresse un'accelerazione terribile alla disfatta non solo del Caf, ma della stessa formula di pentapartito. A quella stagione riporta il chiacchiericcio riemergente sul rimpasto. Anche questa, in fondo è una bella prova di quanto poco il maggioritario sia entrato nei codici politici italiani. Uno spostamento spesso innesca un effetto-domino che nessuno riesce ad arrestare Nel '90 un cambio di poltrone nell'esecutivo Andreotti segnò la fine del Caf A sinistra Alcide De Gasperi qui sopra Aldo Moro e, a destra, Giovanni Spadolini
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