C'É PETROLIO PER ALTRI CENT'ANNI

C'É PETROLIO PER ALTRI CENT'ANNI C'É PETROLIO PER ALTRI CENT'ANNI // prezzo è indipendente dalle scorte SI è scritto: "il prezzo del petrolio è salito a valori insopportabili". Negli ultimi mesi, infatti, ha superato i 20 dollari al barile (pari a circa 230 lire al litro) e negli ultimi giorni il Brent (greggio di riferimento proveniente dal Mare del Nord) è stato venduto a 24 dollari al barile. Sono prezzi veramente insopportabili per l'economia mondiale e per quella italiana in particolare, che è idrocarburo-dipendente circa al 84 per cento? Per chi si era abituato a pagare nell'ultimo anno un barile di petrolio meno di 13 dollari ( 150 lire al litro) il nuovo prezzo è certo motivo di preoccupazione ma non autorizza gli analisti economici (soprattutto italiani) a creare allarme e panico: l'anomalia non sta nei 24 dollari, ma nei 13 dollari al barile. Considerando che la moneta americana ha subito nel tempo la sua perdita di valore, e ragionando in dollari di riferimento 1999, è giusto ricordare che dal 1986 al 1993 il prezzo del petrolio è sempre stato superiore ai 20 dollari al barile e che il valore medio del settennio in questione è stato di circa 24 dollari al barile. Ma a quell'epoca nessuno affermava che la situazione era insopportabile, perché era nella memoria degli analisti e degli operatori il ricordo del periodo 1974-1985, quando il petrolio raggiunse (sempre a moneta 1999) un picco di 70, con un valore medio di 47 dollari al barile. Oggi sarebbe dunque più corretto scrivere che il prezzo del petrolio (e del gas naturale, ad esso fortemente ancorato) è tornato a valori "normali". "Normale" per il consumatore, che trova >in esso una fonte energetica a T basso costo (non si dimentichi l'enorme tassazione governativa che porta il prezzo della benzina a 2000 lire al litro), e "normale" per il produttore, che con il ricavato deve remunerare i capitali investiti in imprese ad alto rischio. Un prezzo duraturo intorno ai 13 dollari al barile (o inferiore) avrebbe consolidato gravi stati di crisi dell'industria petrolifera implicanti: licenziamenti (già messi in atto in paesi come gli Usa), arresto o forte contrazione delle assunzioni (come in ambito Eni), abbandono prematuro di campi petroliferi (come era nelle intenzioni della Sun Oil per i giacimenti di Balmoral, Stirling e altri nel Mare del Nord), arresto o annullamento di programmi di ricerca nel sottosuolo (come è avvenuto in Siberia). Per attenuare gli effetti della crisi e nel timore che prezzi bassi potessero permanere a lungo nel tempo, le grandi società petrolifere occidentali hanno reagito mettendo in atto processi di fusione, alla ricerca di maggiori economie di scala: la Exxon con la Mobil, la British Petroleum con la Amoco e l'Arco, le francesi Elf e Total con la belga Fina. Le società petrolifere dei produttori Opec, con la Aramco della Arabia Saudita in testa, hanno reagito diversamente, utilizzando la classica regola della economia di mercato (legge della domanda e della offerta), decidendo di ridurre la produzione (offerta) sperando che, a parità di domanda (circa 65 mila barili al giorno) il prezzo del barile salisse. Il 23 marzo 1999 a Vienna gli undici stati membri dell'Opre decisero di ridurre la loro produzione di greggio mediamente del 7 per cento. A quella data il Brent veniva trattato a 13,7 dollari al barile, ma nei mesi precedenti aveva toccato i 10. Non era la prima volta che l'Opec decideva simili misure, ma sempre esse venivano vanificate in quanto disattese dagli stessi stati contraenti. Questa volta c'era l'Arabia Saudita (produttore mondiale di vertice) che premeva, minacciando di far cadere il prezzo a soli 5 dollari al barile grazie alla sua enonne potenzialità produttiva. Ma la grande novità fu l'adesione al patto, per la prima volta, anche di Stati non Opec, come la Russia (terzo produttore mondiale, con la sua disastrata economia sorretta soltanto dalle esportazioni di petrolio e gas naturale), il Messico (settimo produttore mondiale, bisognoso di dollari per i suoi programmi di sviluppo) e - con sorpresa - la Norvegia, ottava produttrice mondiale. Nel patto venivano a trovarsi Stati che, messi insieme, producono più del 50 per cento del totale mondiale. Nel giugno 1999 il prezzo del greggio raggiungeva già i 18 dollari, mentre oggi siamo oltre i 23 dollari al barile. A quali prezzi potrà arrivare il petrolio (e quindi la benzina al distributore)? In questi giorni assistiamo già a un calo del greggio: a nostro giudizio, salvo osculazioni di 2 o 3 dollari al barile, eravamo arrivati al massimo. In assenza di fatti gravi ma contingenti come guerre locali (ma la crisi in Kosovo non ha dato alcun turbamento sinora ai prezzi petroliferi), colpi di Stato in Arabia Saudita, Iran, Iraq o Russia, o inverni particolarmente freddi, si entrarà nel 2000 con questi prezzi. E dopo? Va escluso con certezza che in futuro, a medio termine, il prez- zo del petrolio possa aumentare a causa dell'esaurimento delle riserve, tesi, questa, già sostenuta una trentina di anni fa e poi smentita dai fatti. Nel 1971 un gruppo di ricercatori del MIT diretto da Meadows pubblicò una ricerca (frutto di oltre un anno di lavoro) che fece molto scalpore nel mondo e condizionò molte scelte successive dell'industria petrolifera. Nel saggio "I limiti dello sviluppo" si affermava che di petrolio ce ne sarebbe stato ancora per 31 anni (per il gas naturale il limite previsto era di 38 anni). Ciò significava che fra 2 anni (rispetto ad oggi) il inondo non avrebbe più avuto a disposizione una goccia di oro nero. Seguirono ovviamente sconcerto e panico, soprattutto in conseguenza delle superficiali e non sempre approfondite interpretazioni giornalistiche. Ad onor del vero Meadows aveva scritto nel suo rapporto che se i consumi si fossero mantenuti ai valori di allora e se le riserve fossero rimaste uguali a quelle note a quel tempo, allora... C'erano, per cominciare, ben due «se» e Meadows, da bravo scienziato, considerò altre eventualità: se i consumi (invece di restare costanti) fossero aumentati in futuro - come nell'ultimo periodo - del 4-5 per cento all'anno, di petrolio ce ne sarebbe stato ancora solo per 18 anni. L'affermazione rese ancora più drammatica la previsione, leggermente addolcita dall'ipotesi che in futuro, se nuove riserve di petrolio fossero state scoperte, allora si sarebbe potuto pensare alla fine del petrolio entro 50 anni, e che comunque essa si sarebbe presentata fra il 1990 e il 2020. Stiamo andando, dunque, verso la fine? No, perché nel frattempo sono arrivati fatti nuovi: le riserve scoperte dopo il 1971 sono state di gran lunga superiori alle previsioni; le stesse riserve di allora sono aumentate grazie all'affinamento delle tecniche di estrazione e produzione; nuove aree a terra e a mare hanno rivolato elevate probabilità di ospitare ulteriori giacimenti petroliferi, e per contro il tasso di aumento dei consumi energetici non ò più del 4-5 per cento, ma dell'uno-due per cento (nell'ultimo biennio inferiore a 1 ). Ciò significa che l'eventuale fine del petrolio (e del gas naturale) non avverrà prima del 2100. Anzi, non ci sarà una fine del petrolio vera e propria. Prima dei 2100 altre fonti di energia alternative già note e utilizzate (eolica, solare, marina, da biomassa) e altre note ma oggi non ancora utilizzabili (l'energia da fusione nucleare! o altre ancora non note sostituiranno sistematicamente la fonte energetica petrolifera, senza aspettare che essa si sia interamente prosciugata. Come già sta accadendo perii carbone. Riccardo Vai-velli Raffaele Romagnoli Politecnico di Torino Si scoprono continuamente altre riserve di idrocarburi e si perfezionano le tecnologie di estrazione: nel 2100 ci sarà una transizione dolce verso nuove energie Per la benzina oltre le 2000 ffi-e al litro tutti gridano all'emergenza ma il problema è nelle tasse: i prezzi del greggio sono più bassi di 10 anni fa Per la benzal litro tutti gma il prRISERVE POSSIBILI RISERVE REALI NON ECONOMICHE RISERVE PROBABILI NON ECONOMICHE RISERVE MONDIALI DI IDROCARBURI OGGI

Persone citate: Meadows, Raffaele Romagnoli Politecnico