Che dolori, che dolori: va in pensione il prof. Aristogitone

Che dolori, che dolori: va in pensione il prof. Aristogitone Che dolori, che dolori: va in pensione il prof. Aristogitone Lasciare la cattedra «dopo quarant'anni di duro lavoro», dai banchi delle elementari all'università: nella scuola azienda di oggi ci si sente estranei e retrogradi TESTIMONIANZA Antonio F*ieti C'ERA negli Anni 70 un personaggio che mi divertiva e però un poco anche mi angosciava per via di una domanda di cui non riuscivo a liberarmi mentre rìdevo ascoltando le sue sortite: un giorno sarò anch'io come lui? Ecco, ci sono arrivato, ho fatto i conti, non sono come lui, io sono lui. Quel mio personale anticipatore, quel mio antropologico antefatto, quel mio spietato precursore era un personaggio della trasmissione radiofonica di Arbore, Alto gradimento, era il professor Aristogitone e, nel pronunciare il suo nome, comunicava sempre subito anche il suo stato di servizio, ovvero la sua radice esistenziale: «Sono il professor Aristogitone, quarant'anni di insegnamento, quarant'anni di duro lavoro...». Ebbene, da questo 1 ' ottobre il professor Aristogitone, temuto come il Falstaff di un'ironica tregenda esistenziale, convitato di pietra seduto accanto a una cattedra, demone pedagogico di un inferno descrìtto da Nizza e Morbelli, sono io. Li ho già alle spalle i quarant'anni di insegnamento, il prossimo, che comincia ora con la prima lezione di un semestre intensivo dedicato monograficamente all'opera di Kipling, è il 41 °, come il titolo di un celebre film sovietico. Avevo vent'anni, da poco compiuti, quando giovedì l ' ottobre 1959 presi la corriera che doveva portarmi a Castello di Serravalle capoluogo, ovvero a Castelletto, la mia prima sede di titolarità. Avevo infatti vinto, in marzo, molto brillantemente e ben prima di compierli, i vent'anni, il concorso magistrale e quella, con i due autobus e le due corriere indispensabili per raggiungerla, era considerata un 'ottima prima sede. Su di meincombeval'accorata implorazione del direttore didattico, il dottor Cottignoli, che mi aveva detto: «Mi raccomando, lei non è maggiorenne, se cava un occhio a un bambino vado in galera io...». Però di tentazioni in questo senso proprio non ne avevo: nel 1959 si diventava maggiorenni a ventun anni, io ero un maestro minorenne, in pieno possesso burocratico del ruolo, e avevo nella cartella un amuleto valido contro ogni accidente o sventura: L'Espresso, che allora usciva il giovedì e mi garantiva una linea di condotta pari a quella che un certo personaggio del romanzo La pietra di luna di Wilkie Collins cerca nel Robinson Crusoe. Sapevo, come lui, che solo sfogliando il settimanale avrei risolto i miei dubbi laceranti: cosa insegnerò, cosa dirò a quei bambini, io che ventisei mesi fa ero ancora alle prese conl'IstitutoMagistrale? Cosi come nel Robinson anche nell'Espresso c'era tutto, anzi c'era troppo: arrivai a Castelletto ancora indeciso: dovevo parlare ai miei alunni della morte di Enrico De Nicola o di quella di uno degli ultimi centenari superstiti del Settimo Cavalleria di Custer? Ma quando li vidi, queimiei 17 primi allievi seduti su un muretto in attesa della corriera, l'illustre statista scomparve dalla mia memoria e mentre mi avviavo a scuola con quei miei fratelli minori da cui mi separavano dieci anni, riepilogavo mentalmente il massacro, l'ambizione di Custer, il film con Errol Flynn. Avevamo il turno di pomeriggio in un'aula ricavata dal retrobottega di una cooperativa di consumo del popolo, un camerone con arcani banchi di legno e una stufa di ghisa da baracca del West che il mio alunno Guido mi vietò sempre di toccare perché a suo parere io non sapevo far nulla con le mani, in quanto ero di città. Erano ben saldi nelle loro convinzioni quei miei fratelli minori: quasi tutti comunisti, reduci dall'insegnamento del bravissimo maestro dell'anno prima, un colto e coerente seguace di Freinet, erano decisi a non lasciarmi finire l'anno nelle deplorevoli condizioni in cui lo stavo iniziando. Giorno dopo giorno, sgridandomi come piccoli sergenti ai un'unica recluta mi spostarono dai ghiribizzi radicaleggiami del mio settimanale preferito verso la dura realtà di un borgo collinare in cui, solo quattordici anni prima, c'erano stati eventi non cancellabili: la guerra, la resistenza, le prime lotte di un'Italia tornata libera. Fui un allievo decoroso, e del resto diciassette maestri possono ben giovare nella Bildung di un solo scolaro, ma uno di loro, oggi sindaco di Casalecchio di Reno, Luigi, mi guarda ancora con un poco di perplessità, come se ci fosse in me sempre qualcosa da rifinire. Nel rapido passaggio a Bologna, nei sedici anni di permanenza nella scuola elementare ho definitivamente contratto una identità che mi ha gravemente danneggiato nella carriera universitaria: io sèguito a pensare che l'insegnamento sia quello in cui ti misuri davvero con i bambini, loro che non fanno sconti, che non perdonano mai nulla. Gli studenti universitari, invece, fanno (come Kim) già parte del grande gioco e ascoltano perfino una macchietta andata in cattedra perché per anni ha portato la borsa di un barone mafioso. Tra l'insegnamento universitario e quello elementare non trovai in quegli anni nessuna connessione. Infinite bravissime maestre indomite mi hanno svelato piccoli, geniali e personali segreti didattici : erano tanto più avanti di me, negli anni, ma ancora ne incontro e parliamo, dopo abbracci e commozione, alcune vado a trovarle sotto Natale, con animo consapevolmente dickensiano. Abbiamo gli stessi dubbi, sono finalmente diventato reazionario, passatista, retrogrado come loro e come loro temo la spersonalizzazione dei pianificatori, l'odio oggi rivolto verso il talento personale, la gestione aziendalistica, il buonismo repellente, il qualcosismo stereotipico, il nozionismo da quiz, da spot, da test, la pedagogia modaiola che inventa una didattica fatta di slogan ad ogni inizio di stagione. Ho anche un grave rimorso bibliografico: per anni ho imposto ai colleghi la lettura di due fondamentali testi intrisi di veleno pedagogi¬ co, ormai veri classici di una scuola torva e nemica, mefitica e crudele: 7/ maestro di Vigevano di Lucio Mastronardi (Einaudi, 1962) e II demone meschino di Fédor Sologub (Garzanti 1965). Sono grandi libri, ma, diventato come sono rinvenimento di un personaggio radiofonico, assunta in pieno 1 identità del professor Aristogitone, oggi mi rifugio nei Ricordi di scuola di Mosca, un libro che ha la mia stessa età perché è un Rizzoli del 1939. Dato che, come Wittgenstein, ma con un percorso rovesciato rispetto al suo, mi sono trovato ad insegnare alla scuola elementare e nell'università, avverto l'inconciliabile differenza che esiste tra i due ambiti. Proprio in questi giorni un giovane professore delle medie mi propone la ristampa di alcuni lavori di miei alunni delle «Tambroni» pubblicati nel 1970. Mi chiedo se sarebbe mai possibile fare qualcosa di simile all'università e sono sicuro che proprio non si può. Il colloquio, l'umanità di un'aula, il senso come di un procedere comune, passo dopo passo, la scoperta di clamorose, commoventi conquiste, come il constatare che ora sanno leggere, come scoprire che possono avere coscienza storica, come cogliere l'attenzione nei loro occhi se si riescono ad affascinare davvero, sono tutte esperienze collocate solo lì. Dal 1961 al 1963, alla «Viscardi» di Bologna ebbi come alunni di una mia quarta e di una mia quinta quasi solo gli ospiti di un poverissimo orfanotrofio che era nella zona. Avevano un fortissimo spirito di corpo e chiamavano i loro compagni più fortunati che vivevano in normali famiglie con padri, madri, fratelli «gli esterni». Un compatimento rovesciato, uno sberleffo di grande potenza filosofica. Credo che ogni professor Aristogitone, se i suoi quarant'anni di duro lavoro se li è davvero fatti tutti, senza sabbatici, o pause di riflessione in montagne incantate, si senta più o meno un «esterno», ma non sapendo però se esiste un interieur, neppure quello di Walter Benjamin.

Luoghi citati: Bologna, Casalecchio Di Reno, Castello Di Serravalle, Italia, Mosca, Nizza, Vigevano