Dubcek il socialista dal volto umano di Enzo Bettiza

Dubcek il socialista dal volto umano Praga e il vero '68 d'Europa: una primavera di speranza schiacciata dai carri sovietici Dubcek il socialista dal volto umano il socialista dal volto umano Enzo Bettiza IL dramma cecoslovacco del 1908 fu meno aspro, meno sanguinoso, della tragedia ungherese del 1956. Tuttavia, le due date e le sventure di ambedue quei civilissimi Paesi danubiani, sovietizzati con la forza e con la frode, dovevano restare incise in profondita nella storia del secolo. Attraversai in tutte le sue fasi alterne, primaverili e tempestose, il dramma della Cecoslovacchia, che del resto avevo presagito e in gran parte preannunciato fin dai miei precedenti soggiorni a Praga e a Bratislava tra il 'G6 e il '67. Con presentimenti misti di speranza e d'ansia avevo cercato di analizzare nei miei scritti quel periodo di transizione, quella nervosa vigilia prima dell'esplosione democratica, contrassegnati dai sussurri e dalle grida contenute di una nazione che desiderava fuoruscire, possibilmente indenne, dal comunismo. Della famosa «primavera» la maschera triste e come ingessata di Dubcek diventerà il simbolo popolare, poi l'ombra imbranata, quindi, nei giorni della resa, la spia di quel dolente masochismo tanto diffuso nella vita e nella letteratura cecoslovacche. Ma già qualche anno prima che Alexander Dubcek, emotivamente sensibile come tutti gli slovacchi al culto panslavista della Madre Russia, salisse titubante e frastornato ai vertici del partito, s'avvertivano nell'aria le spinte e le insofferenze dei precursori che non riuscivano più a tenere a freno la lingua. Il teatro dell'assurdo 11 teatro dell'assurdo non a caso raccoglieva allora a Praga uno straordinario consenso di pubblico. Accanto a Ionesco e a Heckett, esso trovava una calzante espressione nazionale nell'acre commedia di un autore quasi del tutto ignoto in Europa, ancora ragazzo quando il figlio del grande Masaryk «saltò» dalla finestra e i comunisti, da mezzadri, diventarono proprietari interi del potere. Si chiamava Vàclav Havel e la sua commedia s'intitolava Garden Party. Il futuro primo presidente non comunista della Repubblica ceca fissava con maestria satirica, nella sua pièce, il clima d'irrealtà programmata, esasperata, feticizzata, in cui boccheggiava la Cecoslovacchia sotto il tallone di Antonin Novotny. Si usava dire a quei tempi che la «democrazia popolare» di marca staliniana stava al socialismo come il bordello all'amore: i giornali decantavano la felicità del vivere con la stessa enfasi sovreccitata con cui le puttane fingono il piacere e l'orgasmo. Proprio quel linguaggio falsificato, quella specie di erotizzazione mercenaria della semantica ufficiale, doveva diventare l'assurdo personaggio centrale della satira haveliana. 11 Garden Party presentava al pubblico l'ascesa priva di scrupoli di un cinico Bei-Ami stile socialista. Per la sua scalata al potere egli aveva deciso di sfruttare, invece delle donne, la dissennata «lingua di legno» marxleninista, portandola a un grado di perfezione nullificante e inventiva tale da confondere, sul loro stesso terreno, i più devoti e più vigili funzionari del partito. I creativi sproloqui dell'arrivista, tutti sospesi tra la formuletta scientista, la passione ideologica e l'estasi mistica, potevano apparire al primo momento come un'imitazione di quel modo d'esprimersi svitato tipico dell'antiteatro alla Ionesco. Ma non era cosi. L'appassionato e folle burocratismo, che si rifletteva nel delirio logorroico dei comunisti in camera di Havel, era di derivazione prettamente indigena: era la trascrizione, spesso letterale, dei fondi più esaltati del Rude Pravo e delle verbose risoluzioni del Comitato Centrale. Quando lo spregiudicato Bei-Ami di partito, manipolando a freddo la più vaneggiante delle sue circonlocuzioni burocratiche, annunciava la creazione di un «Ufficio speciale delle Inaugurazioni strutturato, su rigorosa base scientifica, per inaugurare appunto la graduale liquidazione dell'Ufficio centrale delle Liquidazioni», l'applausometro saliva di colpo alle stelle col pubblico che si contorceva nello spasimo di un riso violento e amaro. In quelle rappresentazioni dissacranti, dove sembrava riecheggiare anche la risata del soldato Svejk di Hasek, c'era già il preannuncio della grande stagione del 1068. Tutto era già in movimento e in fermento. Tutto però pareva muoverei in una direzione sensibilmente diversa da quella, piii romantica e più barricadiera, tragicamente imboccata dai contestatori ungheresi e polacchi. La satira teatrale di un Havel, la revisione filosofica di un Si era formata un 'oppche lavorando sui temintendeva adoperare Lper sbarazzarsi di LenKosik, la campagna prokafkiana di un Goldstucker, l'inquietudine economica dei Sik, Selucky e Lobi, costituivano i punti di sostegno intellettuale di un moto d'opposizione di tipo assolutamente nuovo: pragmatico, flessibile, sinuoso, che tendeva a spingere le sue diramazioni dentro la serra dello stesso potere politico, dentro il partito, dentro lo Stato. Era un'opposizione che faceva i calcoli sui tempi lunghi e che adoperava sapientemente Lenin per sbarazzarsi di Lenin. Non per caso i'uomo simbolo della «primavera», Dubcek, sarebbe salito alla massima carica dell'apparato comunista dalle file interne del partito. Dubcek: come dire un riformatore moderalo, un leninista ragionevole, uno slovacco sizione pi lunghi enin n amico dei russi, un ex allievo disciplinato e leale delle Università sovietiche. Ma alle spalle non fortissime, ideologicamente vulnerabili del neosegretario generale che aveva sostituito Novotny, premeva un'intera riazione delusa dal comunismo e avida di libertà. Dietro il partito, costretto a riformarsi con e contro se stesso, non c'era il deserto ma un oceano sempre più agitato. Ci 1 i intellettuali, come s'è visto, avevano acceso la miccia, ma il fuoco era poi penetrato nelle cellule comuniste, nelle fabbriche, nelle caserme, nelle Università, nelle redazioni dei giornali e perfino nella televisione di Stato. A tutto questo s'aggiungeva la scalpitante fronda dei nazionalcomunisti ed economisti slovacchi, che non dimenticavano l'impiccagione negli Anni 50 del compatriota Clementis, e che anche perciò avevano sostenuto Dubcek nella sua timida salita ai vertici di Praga. Furono gli slovacchi, in particolare i comunisti slovacchi, che non s'erano mai trovati a proprio agio in uno Stato che includeva due nazioni, di cui quella egemone era boema, a prendere la mano allo slovacco Dubcek sospingendolo su una strada che lui, forse, non avrebbe desideralo percorrere fino in fondo. Le Accademie e le pubblicazioni economiche di Bratislava, scavalcando Praga, si trovarono di fatto all'avanguardia dell'ondata riformista, diciamo pure revisionista, intesa a introdurre una qualche forma di razionalità e di elasticità nel sistema dirigistico d'impronta sovietica. Quelle pressioni per una maggiore decentralizzazione economica, che per se stesse non erano esplosive, lo divennero quando si combinarono con la richiesta di una liberalizzazione culturale e politica. Ovvero: quando lo slovacco Lobi, economista di rottura, superò i limiti dell'economia e penetrò nel campo minato dell'etica scri- vendo: «Ogni potere che non rispetto i diritti fondamentali dell'uomo, rappresenta in realtà il male e il crimine», tutti immediatamente capirono chi; dalla perestrojka del '07 la Cecoslovacchia era passata di colilo alla glasnost del 1968. Meglio di tutti lo capirono i russi. Essi videro subito il pericolo della secessione, della spaccatura del blocco, nella glasnost che ormai imperversava nelle strade di Praga, nelle immagini sacrileghe' diffuse giorno e notte dalla televisione, nelle interminabili e silenziose code di gente in procinto di firmare i plebisciti organizzati dalla rivista Literarny Listi. Agli occhi di Mosca, plebisciti eretici, scandalosi, patrocinanti l'avvento di riforme estreme, l'abolizione della censura, l'introduzione del pluripartitismo. Agli occhi dei cecoslovacchi, invece, plebisciti d'alto sapore retro, che in sostanza anelavano alla restaurazione del passato tradito, della vilipesa liberaldemocrazia masarikiana che aveva dato al loro Paese, fra le due guerre, il fulgore di uno dei più progrediti avamposti del capitalismo europeo. Quale bisogno avevano mai avuto gli evoluti cecoslovacchi d'imporsi il cilicio comunista per passare dalle blande imperfezioni capitaliste alle violente utopie staliniste? Fatto sta che alla Cecoslovacchia, la quale, fin dall'inizio del secolo, aveva raggiunto quell'altissimo livello di civiltà capitalistica che per Marx era l'inevitabile preludio di ogni radicale trasformazione in senso socialista, il comunismo aveva paradossalmente impedito di realizzare il comunismo. Proprio nel contesto socioeconomico cecoslovacco, il più maturo e il più idoneo secondo la dottrina marxista per il passaggio da un sistema all'altro, la transizione dal capitalismo evoluto al comunismo s'era ribaltata nel contrario. Cosi, la tensione popolare volta al recupero del passato, al ritorno a Masaryk, doveva andare ben al di là delle tattiche ondivaghe del partito e dei limiti mentali e psicologici di Dubcek. Tra luglio e agosto gli eprecipitarono. Il polithtemendo l'espandersi del modello decise l'agIl partito e il suo segretario generale avrebbero voluto indigare la grande spinta degli operai e degli intellettuali, conlenendola nell'ambito di unaperestrojka tecnocratica e promettendo, come alibi utopico moderato, il miraggio di un «socialismo dal volto umano». Ma il vero sbocco, l'unico che le masse vedevano e perseguivano con chiarezza, era quello della riconversione dallo stalinismo alla libertà. O meglio: dal socialismo senza volto al capitalismo dal volto umano. Oramai l'originario progetto dei comunisti riformatori di utilizzare Lenin per addomesticare Lenin, per dare in pasto al popolo una sorta di leninismo commestibile, era stato ampiamente distanziato dagli eventi. La medesima sorte, mutatis mutandis, sarebbe toccata sul finire degli Anni 90 all'Unione Sovietica di Gorbaciov, allorché la perestrojka sarebbe stata sopraffatta dalla glasnost provocando il collasso del regime e del sistema comunista. Gli eventi cecoslovacchi preci¬ venti uro gressione pitarono fra il luglio e l'agosto del '68. Il panilo, messo alle stretti' dalle pressioni dal basso, si vitle obbligato a promulgare un «Programma d'azione» che prevedi' va, fra l'altro, la graduale estinzione della dittatura e l'introduzione di una democrazia plurali sta. Tutto ciò era inaccettabile peri dirigenti del politbjuro sovietico. Ai Breznev e ai Kossighin apparvero in gioco la coesione e forse l'esistenza stessa del blocco monolitico dell'Est europeo. Da un lato i regimi più intransigenti, privi dell'appoggio delle masse come in Polonia e in Germania orientale, temevano che il cattivo esempio cecoslovacco potesse destabilizzarli e perciò lo criticarono aspramente: Ulbricht e Gomulka, pur detestandosi, divennero i falchi del Patto di Varsavia nel cui ambito segreto si slava già programmando l'aggressione militare contro Praga. Dall'altro lato, i deviazionisti cecoslovacchi venivano appoggiati con un certo entusiasmo dalla maggioranza dei partiti comunisti europei, dai riformisti ungheresi, dai regimi comunisti indipendenti di .Iugoslavia e di Romania. Ceausescu e Tito si recarono uno dopo l'altro in visita a Praga, dove la folla tributò accoglienze trionfali ai due campioni dell'eresia antibloccarda. Io mi trovavo già da tempo nella capitale boema e, mescolato alla massa eccitata dei praghesi, potei assistere dawicino ai due comizi. O meglio, a uno solo, quello di Ceausescu, il quale bollò con panile di fuoco le minacciose manovre delle truppe del Patto di Varsavia ai confini cecoslovacchi: evidentemente il «condii cator» pensava, nello stesso istante, alla sicurezza delle vicine e più che mai esposte frontiere romene. Quando un paio di giorni dopo, fu Tito ad apparire muto sullo stesso balcone del castello Hradcany da cui aveva appena comiziato il loquacissimo Ceausescu, tutti restammo impressionati non solo dal silenzio tombale del maresciallo jugoslavo: ci colpi anche la gravita enigmatica del suo volto cupo, privo di sorriso, quasi privo d'espressione, accanto al quale spiccava la faccia cerea e assente di Dubcek. Tito apparve e scomparve come un'ombra cinese dal balcone, inviando alla folla sottostante un cenno di saluto cosi vago, cosi debole, da far pensare ad un mesto gesto di commiato da una marca di moribondi. Per lunga esperienza personale Tito la sapeva lunga sui sovietici. Sapeva anche e certo meglio di Ceausescu che l'invasione armata era ormai questione di giorni, forse di ore. Difatti, dopo i surret tizi accordi del 4 agosto, garantii i a Cerna e a Bratislava da un Breznev sempre pronto a colpirò alla schiena coloro che aveva appena baciato sulla bocca. Dubcek cadde in una specie eli letargo bruscamente interrotto, il 21 agosto, dal rullo compressore dei carri armati sovietici. Il malinconico leader della primavera praghese, dopo aver subito la linde di Bratislava, patì l'infamante e proditorio arresto con manette e benda sugli oi chi: il sequestro culmino in una sala del Cremlino in cui, fra insulti, derisioni e minacce, ì grandi fra telli slavi del politbjuro imposero al piccolo slavo la resa senza condizioni. Morte civile senza patibolo Non ci fu patibolo come per Nagy e Maleter nell'olocausto magiaro del '56. Ci furono pero, per Dubcek, Smrkovsky e altri 468 mila comunisti dubeekiani radiati dal partito, la morte civile, la miseria, l'esilio, la fine dell'onore politico e di ogni speranza personale. Come il protagonista di un noto romanzo di Kundera che, dopo l'occupazione russa, si trasforma da medico in imbianchino, cosi Dubcek, ila eroe effimero delle nazioni ceca e slovacca, scenderà (ino all'ultimo tutti i gradini dell'umiliazione sociale. Prima ambasciatine in Turchia, poi giardiniere a Praga, infine idraulico a Bratislava Sarà il commediografo liberale Havel. nominato nel 1989 presidente della Cecoslovacchia democratica dopi) esseri; stato un carcerato politico nella Cecoslovacchia comunista, a ritirare Dubcek dal nulla restituendogli il perduto certificato d'identità e di rispettabilità jxjlitica. L'unico vero 1968 europeo, quello di Piaga, segno comunque la fine del ruolo di Mosca comiguida del movimento comunista internazionale. Perfino un marxista convinto come lo storico Eric Hobsbawm, ricordando quella data fatale, sarà costretto ad ammettere: «L'interventomilitare in Cecoslovacchia tenne compatto il blocco sovietici) per altri vent'anni, anche se da allora in poi la coesione venne assicurata solo dalla minaccia delle armi. Negli ultimi vent'anni di vita del blocco, gli stessi dirigenti dei partiti comunisti parvero non credere più a ciò che stavano facendo». Si era formata un 'opposizione che lavorando sui tempi lunghi intendeva adoperare Lenin per sbarazzarsi di Lenin Tra luglio e agosto gli eventi precipitarono. Il polithjuro temendo l'espandersi del modello decise l'aggressione Alexander Dubcek eroe melanconico della Primavera di Praga nel disegno di Ettore Viola LA STAMS di speranza o RAVENNA schiacciata dA BETTIZAIl premio Guidarstato attribuito Bettiza, editorialgli sarà consegnada Sergio ZavoBettiza, premiatranno il Guidaresocietà, BarbaraEnrico Ghezzi pespeciale andrà a honorem è statocerimonia sarà c