Quando l'Italia impazzì per il «Moro di Gabriele Beccaria

Quando l'Italia impazzì per il «Moro I SIGNORI DELLA VELA E UNA PASSIONE DI MASSA Quando l'Italia impazzì per il «Moro 7/ sogno del '92, con l'impresa di Cayard in finale la storia Gabriele Beccaria GENOVA H AI visto che bolina?». «Ma nooo, il momento migliore è quando strambano». «Guarda! Adesso il grinder sta cazzando!». «Virano, virano, virano...». C'è stato un momento in cui la debordante Italia del calcio si è zittita e in televisione, sui giornali, al bar, nei salotti si è imposto un nuovo vocabolario superspecializzato. Era il 1992 e, d'improvviso, per uno di quei fenomeni che restano misteriosi al marketing come alla sociologia il «Moro di Venezia» diventò una celebrità, una passione nazionale, un simbolo di orgoglio. Il lunghissimo guscio rosso, le enormi vele sponsorizzate Montedison, il sorriso dello skipper, Paul Cayard, la grinta di Raul Gardini: ogni giorno, per giorni, quelle immagini in diretta e in differita da San Diego, California, magistralmente commentate da Gino Ricci, ci martellarono di emozioni. L'Italia era tra i grandi della Terra (o del mare), finalmente in lotta per l'America's Cup, che - scoprirono molti per la prima volta - era la coppa numero uno, un Graal a cui un esoterico club di miliardari dedicava somme favolose, tecnologie spaziali, equipaggi addestrati con logica informatica e fanatismo da kamikaze. Aveva cominciato «Azzurra» nell'83 (con al timone Ricci! e aveva continuato in coppia con «Italia» nell'87: la corsa verso l'oggetto del desiderio - 65 centimetri per meno di 4 chili d'argento materializzatisi per la prima volta nel 1851 con la sfida tra inglesi e americani era stata difficile, tra alti e bassi. A Newport, Usa, ci si fermò alle semifinali, a Perl li, Australia, andò peggio. Così, quando venne il turno del «Moro», sembrò che gli italiani fossero sul punto di saldare il conto con un destino fino ad allora sfortunato. Andava forte e si passavano le notti a discettare di lasco e tangoni, di spinnaker e rande, di drizze e umpair. La barca di Cayard e Gardini era la prima italiana ad accedere alla finale in un secolo e mezzo e si respirava aria di trionfo. Se gli ex coloni di Sua Maestà avevano piegatogli invincibili inglesi tanto tempo prima, perché non avrebbe potuto ripetersi il miracolo dell'«outsider» coraggioso? E, invece, sette anni fa, il Fato scelse altrimenti, avvele¬ nando la sconfitta con la beffa: a perdere il «Moro» contro «America3» non fu tanto un problema di velocità pura quanto una serie di errori tattici e organizzativi. Alla terza regata, per esempio, Cayard confessò di aver «scelto la parte sbagliata e ci ho investito pesantemente: è stato come comprare azioni alla Horsa di New York nel famoso ottobre dell'87. E' stato un Martelli Nero». Con la raffica delle delusioni calo ili tono il boi) ton e gli italiani accusarono gli americani addirittura di spionaggio. La coppa fini nelle mani di un altro outsider, Bill Koch, mister dai modi spicci del Kansas, snobbato dai sangue blu del mare. Quando gli chiesero il segreto del suo trionfo, rispose seccamente: «La tecnologia». Nel suo team c'erano 40 supertecnici, esperti di idrodinamica, fisica, matematica. A noi rimasero ricordi struggenti, un vocabolario rinnovato, una passione nascente per la vela e una lezione d'umilia per il futuro. Il Moro di Vene dui America del '92 rame la Copp