L'Africa piange Nyerere un padre del Continente di Domenico Quirico

L'Africa piange Nyerere un padre del Continente E' morto il leader della Tanzania indipendente L'Africa piange Nyerere un padre del Continente Domenico Quirico AR es-Salaam, 8 dicembre 1961. E' mezzanotte, lo stadio, che vibra di folla, sotto la luce dei riflettori sembra isolato dal tempo. Al centro è stata piantata una lunga asta, una banda militare suona una marcia, poi tace. C'è un grande silenzio. Due uomini si fronteggiano, sir Richard Turnbull, il governatore inglese, è in alta uniforme; Julius Nyerere, il ribelle che sta per diventare Presidente, indossa un umile vestito grigio. Due mondi, due epoche sono faccia a faccia. L'età degli imperi coloniali sta per abbandonare la presa. Di fronte a lei sta il tempo dell'Africa, continente senza storia, che sta riscrivendo la carta geografica a colpi d'indipendenze. Dal pennone scende l'Union Jack, sale la nuova bandiera. Il Tanganyka, già colonia tedesca diventata inglese come bottino di guerra nel 1910, non c'è più; è nata la Tanzania. E un sogno politico che farà vibrare il Terzo Mondo prima di illanguidire, come tutte le utopie, nel disinganno. Quell'uomo (morto ieri di leucemia a 77 anni) che ha raccolto nelle sue mani l'eredità di un impero, ha il talento del profeta, appartiene ad una generazione che sogna; costruire un'Africa ric¬ ca, diversa da quella che le mani brutali dei colonizzatori hanno modellato a loro uso e consumo. La nazione appena nata ha tutte le stimmate delle indipendenze africane: povertà (solo il 4% del territorio è coltivato), è un groviglio di tribù e di etnie ( 127), di dialetti tra loro incomprensibili. Non ci sono neppure le ricchezze naturali che potrebbero costituire una buona dote per lo sviluppo. Come molti rivoluzionari, Nyerere cerca il futuro nel passato: nell'Africa-Eden di prima dell'arrivo dei colonizzatori, dove non c'era proprietà individuale della terra, dove le classi sociali non esistono. «Noi dobbiamo rieducare noi stessi - raccomanda - riscoprire il nostro spirito originario. Nella società africana tradizionale siamo individui in una comunità. Noi attingiamo da lei e lei attinge da noi». E' un'antistoria falsa, come quella dei colonizzatori. Ma all'inizio funziona. E' quello che Nyerere chiamava «ujamaa», il legame della famiglia, della gente dello stesso sangue, che deve diventare il modello di vita sociale del nuovo Stato. Era la dichiarazione di Arusha con cui alla vigilia del 1968 Nyerere enunciò il suo socialismo destinato a entrare prepotentemente nel grande arsenale di utopie che infiammava il mondo. Dar es-Salaam, lunedì 4 novem¬ bre 1985. Julius Nyerere è sul palco del Diamond Julibee Hall. Al suo fianco ci sono i membri del governo, in platea tremila dignitari. E' il giorno dell'addio. Il padre della patria se ne va, consegna la sua creatura, la Tanzania, plasmata giorno dopo giorno tra fatiche, disillusioni, gioie sempre più rare, ai successori. Ma se ne va volontariamente, tra gli applausi: «Insieme abbiamo costruito una nazione... che dire di più?». Tre giorni dopo, un'auto scoperta, lentamente percorre la strada che porta dal palazzo presidenziale all'aeroporto. Decine di migliaia di tanzaniani si assiepano sulle strade per salutare Nyerere che torna al suo paese natale. Molti piangono. In un'Africa dove i sogni degli Anni '60 sono macerie, uria volta tanto quella gente ha ragione. Certo, il suo socialismo umanistico non ha resistito al peso della storia; l'unanimismo è diventato partito unico, le classi non erano certo un'invenzione dell'Occidente, corruzione e inefficienza hanno roso l'egualitarismo utopistico e un po' semplicione. La Tanzania è orgogliosamente povera, ma manca di tutto, bisognerà smantellare quel socialismo a colpi di liberismo e di privatizzazioni per ricominciare. Eppure quel vecchio uomo era onesto e sincero. In Africa è una rara virtù. Il presidente della Tanzania Julius Nyerere nel 1974 in visita ufficiale a Pechino stringe la mano a Mao Zedong