1968 fiori a Parigi tank a Praga di Enzo Bettiza

1968 fiori a Parigi tank a Praga Scoppia la contestazione: l'Occidente ritrova la nostalgia della giungla, l'Est si copre di tragedia 1968 fiori a Parigi tank a Praga Enzo Bettiza IL 1968 lo vissi fra Parigi, Berlino e Praga. Ma, prima d'inoltrarmi in quell'anno, febbricitante nell'Ovest europeo e drammatico nell'Est, non posso fare a meno di spendere due parole su quanto era accaduto e stava accadendo nel frattempo a Milano. Il crepuscolo di Alfio Russo in via Solferino era stato segnato dal suo crescente malumore e isolamento. Dopo aver dato imo scossone al vecchio «Corriere», togliendogli di dosso l'accademica muffa missiroliana, Russo s'era come disamorato della propria opera e s'era fatto di giorno in giorno sempre più tetro. Aveva ripreso sopravvento in lui una certa sicilianità ancestrale, scèttica, sconsolata: Russo, con stanco passo gattopardesco, stava già entrando nel proprio passato. Dietro quella sua inestinguibile cupezza da hidalgo sul viale del tramonto, c'era, però, anche qualche causa più pratica. La sua rivoluzione dall'alto, infliggendo talora colpi brutali alle firme storiche del «Corriere», aveva finito per isolarlo. Luigi Barzini se n'era andato via da tempo. Domenico Bartoli era freddo e distante. Indro Montanelli, ferito da uno sgarbo da lui definito «di stampo mafioso», aveva inviato a Russo una dichiarazione di guerra che diceva press'a poco questo: «Sappi che, da oggi in poi, io mi vesto di grigioverde e scendo in campo a viso scoperto contro di te». Così Russo aveva dovuto fronteggiare da solo l'avversione ormai sfrenata di Giulia Maria Crespi la quale, scavandogli la fossa, trescava proprio con quelli della generazione emergente che dovevano molto a lui e che, a viso coperto, guatavano i tempi in vista dell'imminente cambio di direzione. Piero Ottone e Cavallari erano fra questi. Infine, Russo aveva perduto il silenzioso appoggio di Michele Mottola: l'influente vicedirettore che incarnava la tradizione e la continuità, e il cui ruolo, direi fisiologico, era stato sempre quello di rappresentare una specie di contropotere ufficioso nei confronti di ogni direzione ufficiale. Le cose precipitarono verso la fine del 1967. Cominciò già a correre e a precisarsi per i corridoi il nome del successore: Giovanni Spadolini, da oltre un decennio direttore del «Resto del Carlino». Allora Russo, in uno scatto di fierezza provocatoria, volle prendersi il gusto di preannunciargli egli stesso la nomina prima che gliela comunicassero i Crespi. Alzò il telefono, chiamò Bologna, ma Spadolini in quel momento era assente. C'era invece Leopoldo Sofisti, redattore capo del «Carlino», il quale, allibito, sentì una voce cavernosa e fremente che gli diceva all'orecchio: «Sono l'ex direttore del "Corriere della Sera". Informi Spadolini che è lui il nuovo direttore e che, se vuole, può venire già domani a sedersi al mio posto». Fu la mossa, sottolineata pondi più da una lettera di dimissioni, con cui Russo si tagliò volontariamente fuori da ogni residuo margine di negoziato con la proprietà. La mongolfiera Spadolini, luminosa e immensa, atterrò trionfante in Via Solferino verso la metà febbraio del 1968. L'atterraggio era stato preceduto da rapide e svolazzanti missive autografe che congratulavano i destinatari per accingersi a collaborare col mittente. Quindi, appena sbarcato, volle anzitutto sacrificare un omaggio significativo alla cultura del «Corriere», recandosi a salutare di persona il redattore Eugenio Montale nel suo modesto ufficio al pianterreno. Osò anche qualcosa che i sobri corridoi di Via Solferino non avevano mai visto prima di allora: fece radunare nello stanzone più capiente i redattori e, soddisfatto di sé, scintillante e sorridente, sfoderando un'eloquenza perfetta, si presentò a tutti con una specie di discorso della corona. In sostanza Spadolini ci annunciò che la storia. d'Italia e del Risorgimento stavano per riconciliarsi ora, tramite la sua direzione, con la grande tradizione albertiniana del primo quotidiano nazionale. Sigillò infine quell'entrée coreografica con una lampadina rossa che, installata accanto alla porta dell'ufficio direttoriale, cominciò subito ad accendersi spietatamente durante le sue interminabili conversazioni telefoniche che nessuno, per nessuna ragione, doveva interrompere. La nuova nomina suscitò anche reazioni e delusioni indispettite. La maggiore ostilità al «professore», come lui definiva con sprezzo Spadolini, doveva venire soprattutto da Piero Ottone. Le precipitose dimissioni del direttore siciliano avevano sconvolto i piani di Ottone che, in tutti quegli anni, aveva lavorato e mirato a uno scopo solo: cogliere naturalmente, con l'assenso dei proprietari, il frutto della direzione dalle mani di Alfio Russo. Ma la spugna intemperante, gettata da Russo troppo in fretta rispetto ai tempi più lunghi di cui Ottone aveva bisogno, ne vanificò o quanto meno rinviò d'una battuta il progetto ch'egli avrebbe realizzato qualche anno dopo. Non gl'importava assolutamente nulla che il «Corriere» di Spadolini, disincagliandosi da una linea di centrodestra si fosse subito mosso verso il centrosinistra dei Moro e dei La Malfa. Indifferente alla novità ideologica Ottone insistette nel dire che il «Corriere» del «professore» era destinato ad accademizzarsi e spegnersi, perdendo per strada le spezie piccanti di cui Russo l'aveva cosparso. Questi gli argomenti editoriali, per non dire formali, di un dissenso che però contraddiceva in parte quell'immagine progressista che Ottone s'era ritagliato addosso ed esibiva come austero abito fabiano nel salotto della Crespi. Anzi, nella casa della «zarina» sua amica, egli s'impegnò in un paio di feroci attacchi contro Spadolini che caddero nel vuoto. Qualche tempo dopo, falliti i blitz, Ottone e Cavallari, coinvolto pure lui nella contestazione antispadoliniana, sbattevano incolleriti dietro le spalle la porta del «Corriere»: il primo andò a dirigere il «Secolo XIX» a Genova, il secondo il «Gazzettino» a Venezia. L'uscita da Via Solferino dei due dioscuri, che fino allora avevano spartito insieme i servizi più ampi, mi aprì di colpo uno SituazioneRudi il rvedeai corte spazio ancora più vasto di quello già assicuratomi da Russo. Fu lo stesso Spadolini a stabilire subito con me, sia sul piano professionale che personale, un rapporto dinamico assai amichevole. Mi sbloccò dalla specializzazione nei problemi dell'Est europeo, mi aprì l'Europa intera, l'Asia, le Americhe, mi volle presente anche su certi più delicati argomenti italiani. Divenni il suo braccio destro nelle questioni internazionali e negli editoriali di carattere ideologico. Fu quello il periodo che coincise con la mia piena maturità e con gli eventi di un anno anomalo destinato a lasciare un segno sulle due Europe e anche sull'Italia. La prima inchiesta che concordai col nuovo direttore ebbe per destinazione Parigi e per oggetto le primizie culturali francesi. Mi colpì l'aria di quella Francia al crepuscolo del gollismo: calma, troppo calma, apparentemente assopita ma inquietante. Era trascorso un decennio dalla salita del generale all'Eliseo e il regime appariva immobile, assente, quasi esaurito; l'impressione era di una forte carica ormai consumata. Dopo l'esplosione intellettuale del primo dopoguerra, dopo il dramma d'Algeria, lo sfaldamento della Quarta Repubblica, gli esordi trionfali e stravaganti della Quinta, la società francese si era intorpidita nel benessere e nella contemplazione compiaciuta di una politica fantasiosa e immaginaria che De Gaulle tagliava addosso a Madame France con l'abilità di un couturier letterario degno dell'Académie. Quel clima atono di stanchezza, di ristagno nel vuoto, che faceva pensare alla quiete afosa prima del tifone come nel racconto di Conrad, aveva trovato il suo risvolto culturale nella moda dello strutturalismo. Allo strutturalismo si poteva¬ no dare diversi significati d'ordine filosofico e metodologico. Su un piano più ristretto, quello ideologico, la recentissima moda parigina rappresentava una specie di fuga consolatoria: un'uscita di sicurezza dallo storicismo e dall'esistenzialismo verso l'informe, il primitivo, il frammento pietrificato di comunità selvagge. Alle variegate e depresse sinistre chiliastiche, fino allora influenzate da Sartre, lo strutturalismo tornava a offrire il vecchio mito redentore del buon selvaggio nella chiave di un irrazionalismo moderno, accettabile, accademizzato e razionalizzato in ogni minimo particolare. Meglio le «società fredde» dei tropici, centrali nell'antistoria cesellata dallo strutturalismo, che le società decotte del comunismo o quelle tiepide del capitalismo. La destalinizzazione infatti aveva messo a nudo le piaghe del socialismo reale; la decolonizzazione algerina, imboccando una svolta autoritaria, aveva rivelato i limiti insormontabili della più autore¬ vole rivoluzione nazionale del terzomondo; l'ascesa del gollismo al potere aveva semplificato e stabilizzato a destra la situazione francese. Tutti questi traumi e delusioni avevano finito col fomentare nell'intelligencija di sinistra un astio profondo contro la storia. La giungla riscoperta e mitizzata dagli strutturalisti offriva il bandolo del riscatto e della consolazione. Il nuovo idolo, Lévi-Strauss, il pacato distruttore che teneva dotte lezioni di linguistica e di etnologia al Collège de France, aveva centrato il bersaglio mettendo nelle mani dell'intellettuale frustrato, un tempo marxista o sartriano, il grimaldello di mondi extraeuropei privi di storia e di memoria. Una comoda soluzione di ricambio dopo il crollo delle grandi illusioni. Ma, sotto questo irrazionalismo sofisticato, da laboratorio etnografico, che trattava l'uomo come un fossile geologico e dava il colpo di grazia al superstite orgoglio eurocentrico delle civiltàbianche, premeva già l'irrazionalismo brado della contestazione giovanile che di lì a poco sarebbe esplosa sulle barricate di maggio. Dall'Atlantico e più ancora dal Reno incominciava a spirare il vento della rivolta marcusiana. Dutschke, da Berlino, preannunciava già Krivine e Cohn-Bendit a Parigi. Dallo strutturalismo, che relativizzava le culture superiori mettendole allo stesso livello di quelle inferiori, al marcusismo che le aggredirà di petto accusandole delle infamie più ineffabili, come la «tolleranza repressiva», il passo sarà breve. E sarà anarchico, barbarico, in qualche modo preistorico più che antistorico; nostalgico delle clave, delle caverne, degli uomini delle foreste; in definitiva nostalgico del vuoto che stava alle spalle e non certo davanti all'umanità. Assisteremo così a un plebiscito generale a favore del selvaggio che, dopo essere stato il modello di riferimento parascientifico nelle lozioni di Lévi-Strauss, diventerà perfino nel fisico una specie di doppio dello studente borghese nelle aule, nelle assemblee, nei cortei e sulle barricate del Quartiere Latino. 11 sudiciume cavernicolo, il pelo incolto di barbe e zazzere lasciate crescere in libertà, gli abiti volutamente sporchi o stracciati assumeranno, secondo un nuovo conformismo generazionale, quasi lo stesso significato rivoluzionario che in tempi più veri e più eroici aveva avuto la coccarda tricolore o la cravatta alla Lavallière. Ma non è da Parigi che partirà il segnale dello psicodramma. Io stavo lavorando da oltre un mese all'inchiesta francese quando Spadolini, allarmato, mi telefonò una sera per dirmi che Rudi Dutschke era stato gravemente ferito a Berlino. La situazione era incandescente, qualcuno parlava addirittura di sommossa, molte città e atenei tedeschi erano in subbuglio. Neppure a Milano l'atmosfera era del tutto calma: già da qualche tempo l'edificio del «Corriere» era diventato oggetto di dimostrazioni ostili da parte dei nascenti gruppuscoli. Arrivai a Berlino V11 aprile e mi trovai subito nell'occhio del ciclone. «Rudi il rosso», l'allievo di Marcuse e di Adomo che aveva cercato di trasformare in protesta di piazza l'analisi negativa della società industriale, elaborata fin dagli anni trenta dai sociologi della scuola di Francoforte, era stato colpito da tre rivoltellate sparategli a bruciapelo da un imbianchino neonazista. Berlino mi presentò l'aspetto di una città in stato d'assedio. Volli vedere da vicino. Mi mescolai ai cortei rischiando di finire sotto le zoccolate scalpitanti dei cavalli della polizia, passai nottate intere ad ascoltare sproloqui interminabili alle assemblee universitarie, intervistai strani personaggi occhialuti e barbuti che si facevano pagare il colloquio con un compenso in marchi che poi devolvevano alle casse del «movimento». Nei raduni assembleari, lunghe disquisizioni per stabilire se la violenza doveva essere usata solo contro le «cose» o anche contro le «persone». Nelle strade, elmetti, motociclette, bottiglie molotov, radio riceventi e trasmittenti, capitribù riconosciuti e rispettati che manovravano la massa d'urto secondo calcolati piani d'azione. «Bum, baby, bum», era il grido che in quei giorni si levava da diverse piazze tedesche mentre i grandi magazzini, simi della mercificazione consumistica, venivano dati alle fiamme. Le immagini di Guevara e di Dutschke, stilizzate nei poster che quegli scampoli di papà, fra cui il figlio del vicecancelliere Brandt, brandivano come icone durante le manifestazioni, evocavano il volto emaciato di Gesù Cristo. Si poteva anche leggere qua e là: «Rudi è Gesù». Il tutto si riassumeva nella nuova ideologia del «mamaismo», che prende va il nome dalla triade Marx, Mao, Marcuse. Esalava dall'aria rovente l'anelito all'anno zero di un'utopia indistinta, un'utopia bloccata, senza oggetto e senza sbocco, e, sotto quella paralisi dell'utopia, s'avvertiva un impulso autodistruttivo che era al tempo stesso ludico e luddistico. Un congedo giocoso dalla civiltà deile macchine, un balzo esultante nel vuoto della giungla e della tabula rasa. Frattanto, un'altra contestazione, quella si globale, che dall'operaio all'intellettuale coinvolgeva tutta una società schiacciata dall'intolleranza repressiva, andava maturando nell'Europa dell'Est. Incominciavano i giorni della rivoluzione bianca di Praga. Fui raggiunto da una seconda telefonata allarmata di Spadolini, e mi spostai in Cecoslovacchia. Anche li era in corso una crisi, ma lì i giovani e letterati non dominavano isolati il proscenio: seguivano, compatti, il partito riformato di Dubcek, i lavoratori delle fabbriche in sciopero, le parole d'ordine della televisione di Pelikan. 11 panorama, non era parallelo ma contrario alla vacuità delle allegre contestazioni occidentali. Tutto ciò che per alcuni mesi aveva attirato la mia curiosità nell'opulento Ovest europeo, dall'esaltazione parigina del pensiero primitivo al sociologismo apocalittico degli studenti berlinesi, a Praga perdeva di colpo ogni significato. Slogan come «bum, baby, bum», o come «l'imagination au pouvoir», assumevano, dall'ottica praghese, il timbro di un velleitario lusso autolesionistico che solo uomini veramente liberi potevano concedersi. Gli uomini non liberi, rivoltandosi, potevano approdare unicamente o alla libertà o alla tragedia. L'unico 1968 serio, tanto serio da muovere in agosto contro la Cecoslovacchia gli eserciti di cinque Stati totalitari, non stava divampando fra l'Elba e la Senna ma intomo alle plumbee acque del Danubio slovacco e della Moldava boema. Situazione incandescente a Berlino Rudi il rosso era stato ferito. «Volli vedere da vicino, mi mescolai ai cortei, finii quasi schiacciato» La Francia stanca di De Gaulle trovava in Lévi-Strauss un nuovo idolo. Cera un clima frustrato e igiovani reagirono con il loro irrazionalismo ente ritrova la nostalgia gi G I O V EDI I -t () Tdella giungla, l'Est si copra o l l ri : ù o e, a a. el o o si nsarannod'oro adel festisi apriràLa Fradi De in Lévidolo. frustrareagirirrazine incandescente a Berlino vole rivoluzione nazionale del terzomondo; l'ascesa del gollismo al potere aveva semplificato maggio. Dall'Atlantico e più ancora dal Reno incominciava a spirare il vento della rivolta marcusiasociologforte, erivoltello da unBerlinouna citvedere cortei rizoccoladella pore ad asnabili arie, intocchialno pagcompevovszvttri demisticme. LeDutschche qucui il Brandduranvano Cristo