«Prove? Neppure uno strqccetto» di Francesco La Licata

«Prove? Neppure uno strqccetto» UNA TESTIMONIANZA DI TRENTA MINUTI:"«LA MÌA LOTTA ALLA MAFIA» «Prove? Neppure uno strqccetto» «Ho atteso invano che ipm riconoscessero l'errore» reportage Francesco La Licata inviato a PALERMO STRETTO dentro l'abito blu, perfettamente abbottonato, Giulio Andreotti recita il discorso in difesa di sè. E' molto attento a non perdere la concentrazione. La legge gli offre la possibilità di avere l'ultima parola, dopo quasi sette anni di tribolazioni e quattro di dibattimento, e il senatore a vita è ben attento a non perdere -magari per stanchezza o disattenzione - l'occasione di lasciare un segno prima che il Tribunali si ritiri per deliberare. Non ò il solito Andreotti, freddo, immobile, impenetrabile fino a trasmettere agli interlocutori quasi una sensazione di distacco per gli argomenti trattati. Il tremore impercettibile dei fogli che regge convive con qualche eccesso di emozione. La scena consegna un Andreotti insolitamente vulnerabile. E ritorna alla mente quel pallore che lo accompagnò quando, il 14 aprile del 1993, si presentò a Sant'Ivo alla Sapienza per sollecitare la concessione dell'autorizzazione a procedere. Ma, proprio quando le vicissitudini della vita sembrano aver intaccato la sua tradizione di impermeabilità agli attacchi esterni, Giulio Andreotti ha dovuto far appello a tutte le sue forze per mutare pelle, almeno una volta. E cosi - contrariamente a quanto ci si aspettava - è venuto in Tribunale con un discorso niente affatto minimaliste lontano mille miglia dal suo solito schema difensivo fondato sulla banalizzazione da contrapporre all'enfasi accusatoria. No, questa volta ci siamo trovati di fronte un Andreotti aggressivo che, cosa mai avvenuta prima, ha chiamato per nome e cognome i tre rappresentanti della pubblica accusa. Un Andreotti che ha messo sul campo tutto il prestigio della lunga carriera politica e di uomo di Stato. Ha persino «provocato», quando ha detto: «Ho atteso invano che, in mancanza di un qualsiasi straccetto di prova, del resto impossibile, la Procura, nella fase preliminare o almeno in questa, riconoscesse l'infondatezza di una imputazione cosi grave e degradante, in contrasto con tutta la mia attività pubblica e privata, sia in Italia che all'estero. Sono rimasto esposto dinanzi all'opinione pubblica mondiale - mi si perdoni l'immodestia - come un traditore di quei doveri di fedeltà ai quali, servendo lo Stato, ci si impegna con un solenne giuramento». Andreotti ha avuto una collaboratrice preziosa nella stesura della propria autodifesa. Il senatore ha trascorso questi ultimi tre gioni a stretto contatto con l'avvocato Giulia Bongiorno. Con lei si è instaurato un rapporto di assoluta fiducia. Non v'è gesto di Andreotti che non sia stato in qualche modo approvato dalla giovane legale, divenuta anche portavoce dell'imputato eccellente. Hanno lavorato sodo, i due. D'altra parte è risaputo lo spirito stakanovista della professionista e quindi nulla di strano che, da domenica sera a martedì mattina, ogni occasione sia stata buona per mettere a punto il discorso. Sia che il collegio di difesa si trovasse nelle sale dell'Hotel delle Palme, sia che si trasferisse alle «Tre sorelle» per una fetta di pesce spada o un piatto di pennette pomodoro e basilico. Ieri Andreotti ha letto, seduto al microfono del pretorio, mentre Giulia Bongiorno seguiva con apprensione dal banco della difesa. Alla fine, mentre il senatore riprendeva posto accanto ai difensori, gli ha detto: «Bravissimo». L'esordio del discorso è servito ad Andreotti per ricordare con garbo che si deve a lui il salvataggio del famoso decreto dol settembre '89 col quale «si bloccava la rimessa in libertà per decorrenza dei termini degli imputati nell'appello del maxiprocesso». L'accusa sostiene che quel salvataggio fu l'inizio di un doppiogioco di Andreotti. «Ma quale opportunità migliore - si chiede il senatore - avrei avuto facendo approvare dal Consiglio il decreto severisimo e assistere poi rassegnato al suo siluramento in sede parlamentare, promosso dal maggior partito di opposizione? Vi sono analisi logiche da cui anche la dialettica accusatoria non dovrebbe disinvoltamente fuggire». I pentiti? Andreotti ha ricordato una sua dichiarazione, con la quale affermava di «non potere e non voler dimenticare che la collaborazione dei pentiti è uno stru- monto in sè utile per rompere il muro dell'omertà dei mafiosi e non voglio quindi affiancarmi a chi generalizza censure e rilievi, facondo proprio uno dei giochi della mafia». A sopresa, insiste: «Non ho mutato avviso». E anticipa che se in Parlamento «qualcuno proponesse la soppressione di questo istituto, mi alzerei per contrastarlo, in piena coerenza con le iniziative legislative antimafia che portano la mia firma e che soltanto una forzatura dialettica come quella di certi pm può dire che fossero adottati con mia tiepi¬ dezza o addirittura a mia insaputa». La voce dell'ex presidente del Consiglio non è sempre ferma. Eppure il tono del suo discorso non scema. Anzi, prendendo spunto ancora dai pentiti, confessa il suo stupore (ma in effetti invia abilmente un memorandum ai tre pm Scarpinato, Lo Forte e Natoli) quando si trovò davanti al collaboratore Baldassarre Di Maggio che si proponeva di «tirarsi appresso (in carcere ndr) tre magistrati, tre pubblici ministeri del processo Andreotti». Se l'è presa con la parte civile, il senatore. Obiettivo, mai nomina to, il sindaco Leoluca Orlando che attraverso gli avvocati ha accusalo Andreotti di aver nuociuto al buon nome di Palermo, Rivolto alla pano civile, ha dotto: «Ricordi al suo dante causa che io sono sempre stato estraneo alle aspre lotte tra democristiani siciliani e non ho mai - forse errando - dato valore alle insinuazioni delio relazioni di minoranza delle commissioni antimafia sia che riguardassero politici di provenienza proletaria, sia di elevato lignaggio» All'esercito di pentiti che l'accusa gli ha contrapposto, Andreotti rilancia coi nomi dei tosti eccellenti, per tutti gli ambasciatori Usa Secchia, Walters e Rabb, accorsi dopo essersi consultati anche coi loro ex capi di Stato. Quindi dedica la parte finale dell'autodifesa a contestare alcune dato che i pm indicano conio quello possibili di incontri tra il sonatore e i boss mafiosi. 1" un'elencazione minuziosa di impegni istituzionali. E il bacio, che Andreotti chiama incontro effusivo? «So fossi andato - ha commentato - in pieno giorno nell'abitazione di una persona agli arresti domiciliari por incontrare il superlatitante Riina, non dovreste danni una condanna, ma ordinare il mio ricovero in una clinica ihii A sinistra Guido Lo Forte, a destra Giulia Bongiorno

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