Un Maestro che ci ha insegnato a ritrovare la coerenza e la coesione del testo

Un Maestro che ci ha insegnato a ritrovare la coerenza e la coesione del testo Un Maestro che ci ha insegnato a ritrovare la coerenza e la coesione del testo VITTI MA delle troppe curiosità e del divertimento intellettuale, sono stato un grande dissipatore. Forse qualcuno ripescherà qualcosa di quanto ho lasciato in giro...»: così Cesare Segre in «Per curiosità». Che cosa ha «lasciato in giro»? Provo a tirar giù un elenco di idee generali o atteggiamenti chi! Segre, a partire dagli Anni Sessanta almeno, ha ravvivato negli studi di critica forniate. Innanzitutto, due virtù: 1) la virtù della pazienza, il valore pedagogico del «tempo letterario», che è un tempo lento, che vuole una lettura intensa, attenta anche (o soprattutto) ai minimi particolari. Se dovessi suggerire per un'ipotetica «opera omnia» di Segre un parlante esergo, vorrei che fossero parole di Petrarca («Fani», xiii, 5, 23): «Io voglio che il mio lettore, chiunque egli sia, pensi solo a me, e non stia a pensare alle nozze della figlia, alla notte che ha passato con l'amante, alle trame dei suoi nemici, alla causa in tribunale, alla terra o ai soldi, e almeno mentre legge voglio che sia solo con me», «non voglio che si impadronisca senza fatica di ciò che non senza fatica io ho scritto»; 2) la virtù della tolleranza, l'utilità e il diritto d'esistere nel campo della critica di una vivace pluralità di letture;, il non privilegiarne a dismisura qualcuna, non quella soltanto linguistico-stilistica, né quella di tipo esclusivamente storico, che allontana più che avvicinare al testo, quando tutto risolve nell'illustrazione del momento storico del quale il testo rappresenterebbe un aspetto, una figura, quel commento che riduce l'opera (come ha fatto ogni storicismo, idealista o marxista che sia) alle ragioni della Storia, alle sue direzioni, alle sue motivazioni, subordinandole il valore dell'oggetto letterario, con la conseguente perdita di autonomia dello stesso. Non è detto che i fatti artistici si svolgano, ha scritto Segre, «concordemente e in bella armonia con lo spirito dell'epoca». Nelle sue pagine autobiografiche Segre ci parla della sua Università, dei seminari pavesi, dove gli studenti da lui «imparano che nessuna teoria è vera, ma che si possono individuare quelle che portano più vicini a risultati soddisfacenti». E' indubbio però che l'analisi latamente formale consente, rispetto ad altre, descrizioni più accurate RITRGianBec TTO . uigi ria e oggettive perché parte dalla presenza nella pagina di quel che li c'è, temi motivi tipi parole. Segre ci è stato maestro nel ritrovare la «coerenza» e la «coesione» di un testo, le connessioni tra le parti. Nell'elenco delle sue benemerenze ci metteri proprio l'averci abituato a leggere i testi nella loro autonomia, come produzione e laboratorio di forme da analizzare, oggetti da smontare e rimontare. E' uno dei critici che meglio ha saputo evidenziare ciò che tiene uniti gli elementi (formali o di contenuto) che compongono un testo, ciascuno significativo in rapporto con il complesso, ed ha così risposto alla domanda intorno a che cosa sia testo, illustrandocene lo specifico, il suo funzionamento, la sua costruzione e potenzialità comunicativa. Ci ha ripetutamente mostrato che la rilevanza culturale di un testo, quanto a invenzione e tecniche, è infinitamente superiore alla funzione di specchio, di «documento» di ciò che sta «intorno» a quel testo. Se lo scrittore è un paradigma del linguaggio figurale, della retorica, di quella specifica tecnica di cui è riconosciuto come privilegiato titolare, il commento filologico-linguistico di un testo è quello che sa fermare con sicurezza un'impronta formale, un gesto stilistico memorabile e peculiare, collegato a sua volta ad altri analoghi di contemporanei e di classici del passato, così da stendere nodo a nodo una rete di lettura chiusa attorno all'oggetto che si commenta. A Segre dobbiamo difatti l'aver rifondato (partendo da Bachtin) la questione della derivazione linguistica e delle fonti, se penso a quante volte ha ridimostrato che un testo, oggetto polifonico e pluridiscorsivo, è sempre lo sviluppo della parola altrui in un nuovo contesto e in nuove situazioni. «E' certamente più facile elettrificare tutta la Russia che insegnare a tutte le persone non analfabete a leggere Puskin così come è scritto» diceva Mandelstam negli Anni Venti. Tra le cose importanti che Segre non ha «dissipato» ma lasciato in eredità, direi ancora di un insegnamento fondamentale: di un testo, più che il «che cosa» è detto, si metta in rilievo soprattutto il «come» è scritto. Il comune lettore in genere è colpito più dalle immagini, dalle emozioni, dai concetti. Importa però far capire a quel lettore che concetti, immagini ecc. sono certo il fondamento di un testo, ma non sono decisivi, diventano rilevanti solo in quanto espressi da parole. Perché un testo letterario è innanzitutto arte verbale, non arte di pure sensazioni e di pure immagini. Soltanto attraverso le figure della parola posso cercare l'impronta dell'individualità creatrice. Non basta mai raccontare la storia, riassumere il contenuto, o parafrasarlo. E' certo importante riassumere una storia, è l'unico modo per far sì che chi di letteratura è digiuno ti ascolti, ma non ha da essere l'atto sostitutivo della lettura. Si finirebbe col credere che conti di meno come le cose sono dette, e conti di più quello è detto. La bellezza, la rilevanza di un libro sta nel come le cose sono montate, la loro regia, il loro modo di essere «espresse»: qui è la parte più importante dell'invenzione del libro. Non è mai il contenuto, la storia, il tema di un romanzo di un film di un quadro che fa di quel romanzo di quel film di quel quadro un capolavoro, ma è la regìa e il montaggio degli eventi, delle linee, dei colori a farne un'opera d'arte. Tutto questo ben di Dio di idee Segre ha «dissipato», ma perché se ne raccolga il frutto a piene mani. RITRATTO . Gianluigi Beccaria

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