Segre, la vita è una seria filastrocca

Segre, la vita è una seria filastrocca Segre, la vita è una seria filastrocca CONOSCERE il latino, sapere che cos'è l'accusativo alla greca («sparse le trecce morbide», ad esempio), avere uno zio come Santorre Debenedetti. E il destino è tracciato, inevitabile è scegliere il sentiero filologico, fino a proclamarsi «philologus in aeternum». Cesare Segre (un capolavoro su tutti: l'edizione critica della «Chanson de Roland») ordina le tessere di una vita in «Per curiosità», quasi un inventario morale («Non siamo nati - sovviene Carlo Dionisotti - per fare storia né romanzo della nostra vita, che è tutta consunta nel nostro lavoro»). Un esame di coscienza suggellato da una modestia che potrebbe suonare stanca, uggiosa («Quanto al mio futuro dopomorte, penso di aver lasciato pochissime tracce»), epperò subito trasfigurata in un'improvvisa, lacerante folgorazione: «La traccia più consistente che si può lasciare nella dimensione della storia è quella del sangue e dell'orrore», Una verità? I,a verità? Dunque la storia non è storia di libertà, come assicurava Croce, scoperto, tramite «La Critica», in un sottotetto ecclesiastico durante la guerra? «No. Gli storici - non mancano le eccezioni, beninteso - tendono a privilegiare, nelle trattazioni, i potenti e le istituzioni. Dimenticando le vittime, coloro che subiscono la storia o invano cercano di cambiare il corso delle cose». Segre (la sua famiglia, la sua gente, i figli di Sara e di Abramo) sa che cosa significa essere perseguitati, gasati. Riconosciuto, avanti la visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga romana, come «fratello maggiore» da Cesare Angelini, il prete dandy rettore del Collegio Borromeo di Pavia («Cesare, il migliore cristiano che conosca»), il professore ha settantun anni. Il numero simboleggia ottimamente ciò che «in una specie di autobiografia» afferma di sé: «Io sono un filologo romanzo venuto fuori da un minuscolo filologo biblico princi- INTEBrQua piante». Settanta i sensi che secondo l'antica opinione avrebbe ogni parola della Torà. Settantunesimo il senso, l'ultima delle fonti di senso, che siamo noi. Nato a Verzuolo, vicino a Saluzzo, nel 1928, Cesare Segre annovera nell'albero genealogico un nonno e un padre «di spirito laico, anche se fedeli ai riti, che conoscevano bene, e frequentatori del Tempio». «Il mio ebraismo - spiega - consiste in un sentimento di solidarietà verso quanti morirono perché ebrei. Non potrei passare ad una diversa religione». Il testimone di «Per curiosità» si colloca di là delle solite categorie: pessimista/ottimista, disperato/se¬ VISTA no nta. . reno. Cesare Segre fissa (fruga) lo ieri, l'oggi, il domani con un cannocchiale o un microscopio, riserva al teatro umano un occhio scientifico, impassibile, esatto. Sa, al pari di Primo Levi, che «o c'è Auschwitz, o c'è Dio. E Auschwitz c'è, continua, e ha i suoi celebratoli, magari inconfessati». «L'unico scopo della vita - avverte - è prefigurare un'umanità migliore che certamente non ci sarà. Le Auschwitz di fine secolo - penso alle pulizie etniche - stanno li a dimostrarlo. Io, per me, alla stregua di un fantasma non posso più avere reazioni di dolore, di strazio. Semplicemente, so». Esibisce un volto da scoiattolo, Cesare Segre, riecheggiante ora il profilo infine adolescenziale di Calvino, ora lo sguardo fosforico e ironico di Contini (chissà se gli appartiene la stendhaliana «médisance sublime» decifrata da Contini in Santorre Debenedetti). Amico carissimo lo scrittore. Maestro, tutore, il «puro cervello» di Domodossola, da cui lo divise il giudizio su Pizzuto: «Lo considerava il maggiore scrittore contemporaneo. Provai a dissentire. Ne scaturì una sorta di guerra, che non infranse la reciproca, granitica stima: gli succedetti - così volle egli stesso - nella direzione della "Nuova Raccolta di Classici Italiani" di Einaudi». Una «specie di autobiografia», «Per curiosità» («Ero curioso di vedere quanto avrei saputo tirar fuori dai miei ricordi, come sarei riuscito a selezionarli e soprattutto a sdipanarli a uso di un lettore sconosciuto»). Una sfida nuova: «Il linguaggio critico, che domino, non era lo strumento adatto per attraversare e far vibrare la memoria. Inevitabile il ricorso al linguaggio narrativo o evocativo, ad altre strutture». E cosi si alternano la prima e la terza persona, l'autointervista, il dialogo di respiro leopardiano. Di capitolo in capitolo, un insieme di «serie filastrocche» per dirla con l'Alfieri della «Vita» convocato nella «giustificazione». Di ricordo in ricordo. L'infanzia. Le stagioni acerbe. La difficile maturità. La guerra. Le due città, Torino e Milano, raggiunta a vent'anni (alfierianamente non ha perciò dovuto spiemontizzarsi). Gli studi. L'Università, la cattedra di Pavia, l'insegnamento non subito come «un penso», a differenza di Gianfranco Contini. La politica: «abituato e destinato a essere un impolitico ammalato di politica», e quindi naturalmente attratto dal quel partito così poco partito che fu il Partito d'Azione («Ebbe una durata breve, vittima dell'avversione e delle ironie dell'Italia eterna, quella moderata sino all'ignavia, quella della burocrazia e dei compromessi, dello scarso senso morale e del poco senso dello stato»). E la «donna in bianco», ovvero la morte, spesso venuta a sfiorarlo (sì, c'è pure la curiosità della morte in queste pagine). Ricordi a ciglio asciutto, sbucciati, mai conditi, mai infiocchettati, all'impiedi, e quindi autentici. Perché i veri ricordi - come sentenziò il filosofo Alain - cominciano con la cicatrice. Orefice della parola, Cesare Segre. Ma serve, la parola, nel nostro tempo ubriacato di slogan? «E', in primis, un'esperienza di piacere. In serondo luogo consente di trasmettere qualcosa di noi a chi ci sta intorno. Se ha il potere di legiferare il caos? Lo sforzo è immane, non sempre, la parola, è in grado di premiarlo. E' successo a pochi nel Novecento: a Bloch, a Musil». E il Novecento italiano, gratificato da Cesare Segre di speciali attenzioni? «Il periodo felice coincide con l'inizio del Novecento: Svevo, Saba, Pirandello, D'Annunzio, Montale, autori nati nell'Ottocento. Dopo? Gadda e Calvino, e i loro echi, Consolo e Del Giudice». Sullo sfondo, imperitura, la filologia romanza, attualissima. «In particolare adesso che è stata messa in cantiere l'Europa. E' una disciplina che rischiara la nascita della letteratura continentale. E rivela che nel mondo culturale europeo, fin da Carlo Magno, c'era la stessa circolazione di idee e di testi che c'è ora, anche se cambiano i numeri». La penombra avvolge lo studio, il «fantasma» Segre merita dal lettore un saluto ariostesco (l'Ariosto dello zio Santorre): «Quel ch'io vi debbo possa di parole pagare in parte». «L'unico scopo dell'esistenza è prefigurare un'umanità migliore che non ci sarà Le Auschwitz di oggi lo dimostrano» Cesare Segre, 71 anni, nipote di Santorre Debenedetti Con «Per curiosità», una sorta di autobiografia, il filologo si è dato una sfida: «Ero curioso di vedere quanto avrei saputo tirar fuori dai miei ricordi, come sarei riuscito a selezionarli e soprattutto a sdipanarli a uso di un lettore sconosciuto» "Il"'*** Cesare Segre Per curiosità Einaudi, pp. 294, L. 26.000 A U T O B I O G RAFIA INTERVISTA Bruno Quaranta. . «PER CURIOSITÀ», UNA SPECIE DI AUTOBIOGRAFIA DEL. NOSTRO MAGGIORE FILOLOGO: GLI ANNI DI PROVA, I MAESTRI, GLI STUDI, L'UNIVERSITÀ', LA POLITICA

Luoghi citati: Domodossola, Europa, Italia, Milano, Pavia, Saluzzo, Torino, Verzuolo