Gros-Pietro: spero sia una pace utile

Gros-Pietro: spero sia una pace utile IL PROSSIMO PRESIDENTE ENI E II CAPITALISMO ITALIANO Gros-Pietro: spero sia una pace utile «Deve creare vantaggi industriali, altrimenti perde il Paese» intervista Ugo Bertone PROFESSOR Gros-Pietro, ma la grande pace prima della guerra è Un bene oppuréno? Non era più «moderno», o più «sano» un confronto aperto fra Generali e Sanpaolo-Imi? «Diciamo - replica lui dopo una breve pausa - che talvolta la lotta per il controllo di una società si rende necessaria per costruire una realtà industriale vincente. E questa lotta ha il merito di procurare una plusvalenza per i soci di minoranza». Allora ha ragione chi storce il naso davanti alla pace tra Torino e Trieste... «Alt frena subito il prossimo presidente dell'Eni - La plusvalenza crea sì un vantaggio immediate per gli azionisti, ma non fa crescere la realtà industriale. Se si ottengono con la pace gli stessi vantaggi industriali, le cose vanno meglio: perché in questo caso le risorse, invece di essere utilizzate per la guerra finanziaria, possono essere investite nella crescita. Meglio, a parità di risultati industriali, evitare di disperdere le risorse finanziarie». Gian Maria Gros-Pietro, presidente dell'Iri, tra due mesi alla guida dell'Eni, è uomo prudente, preciso, quasi pignolo. «Anche queste caratteristiche mi sono servite per compiere un mandato che era essenzialmente di privatizzare e che andava svolto nell'ambito di norme assai rigorose. Per un economista industriale ricollocare imprese sul mercato è una sfida appassionante». E all'Eni? «Là sarà diverso. L'Eni è una Spa quotata, cui gli azionisti chiedono di generare valore in una situazione, tra l'altro, in piena evoluzione. E' una sfida manageriale affascinante e difficile. Ma ciò tocca in primo luogo al management che ha dimostrato di saperlo validamente affrontare». In questi giorni gli piovono addosso congratulazioni ed elogi inconsueti per un uomo che ha sempre preferito una passeggiata in Monferrato ai riflettori della scena mondana. Lui replica con il vezzo di un umorismo «sabaudo». «Purtroppo - ripete - hanno liquidato l'Efim. Perciò non potrò raggiungere il primato dell'avvocato Pietro Sette, che ha guidato tutti gli enti di Stato». E giù una risata discreta, poco più di un sorriso. Non a caso l'hanno definito il «professore tranquillo», per l'equilibrio delle sue posizioni. Ma è anche uno degli esperti più indicati a fotografare lo stato del capitalismo italiano: lui, professore di economia industriale, addetto alle privatizzazioni dal 1994 (indicato da Ciampi, nominato da Berlusconi, attivo sotto Dini, all'Iri su scelta di Prodi, all'Eni per volere di D'Alema e Amato). Eppure questa pace prima della battaglia rischia di a v e - re il sapore delle cose antiche. Il capitalismo, quello vero, si nutre di scontri anche cruenti. Da noi, invece, ha prevalso il richiamo all'armonia. Dobbiamo essere uniti, ha detto Tronchetti Provera, perché siamo deboli... «Io credo di condividere l'analisi di Tronchetti. Basta con i personalismi, un modo inefficace e dispendioso di fare impresa. Per realizzare operazioni vincenti, in Italia e fuori, occorre che le energie siano concentrate sugli obiettivi veri. Ma proprio per questo dico: attenti alle stilizza- zioni estreme». Cioè? «Non crediamo, ad esempio, che a Wall Street o alla City regni il mercato perfetto, razionale, senza nazionalismi o emozioni. Certo, sono mercati più sofisticati del nostro, ma sono ben lungi dall'essere perfetti. Anche lì si registra, semmai, una notevole concentrazione di capitali imprenditoriali, tutt'altro che anonimi». Non mancano i poteri forti, insomma... «Rispetto a noi c'è una grande differenza: il controllo di efficienza garantito dalla contendibilità. Non solo. Il controllo assicurato dalla personificazione del capitale ha fatto il suo tempo. Ma i colossi imprenditoriali, i leader che possono competere a certi livelli sono sempre riconoscibili. E in numero limitato, non più di qualche decina». In sostanza, il capitalismo, a certi livelli, riconosce solo certi attori, selezionati nel tempo... «Anche noi dobbiamo mirare ad avere un certo numero di operatori, capaci di guidare certe operazioni. E, beninteso, a lottare quando è il caso, e non a colludere con l'avversario, magari all'in¬ segna dell'inefficienza». In passato, professore, certe lacune le ha colmate lo Stato. Il nostro era un capitalismo fragile, povero di capitali... «E adesso le cose sono cambiate. Oggi, nel mondo, i capitali richiesti dalle nuove tecnologie sono così ingenti che possono venir assicurati solo dai mercati internazionali. Nessuno Stato se li può permettere. E poi...». E poi? «Gli Stati lavorano su una lunghezza d'onda diversa, difficile che si possano costituire alleanze con partner privati. Eppure, le alleanze sono necessarie per acquisire tecnologie, risorse umane, conoscenze del mercato. Le fusioni che vediamo ogni giorno nascono dalla necessità di garantirsi capacità nuove. Ma se un operatore è controllato da uno Stato incontra più difficoltà a trovare alleati» Eppure c'è chi sostiene la logica del campione nazionale... «Guai a innamorarsi di modelli astratti. Possiamo dire che la presenza dello Stato, in certi casi, non nuoce. Prendiamo l'industria aeronautica e della difesa. Finché Italia, Francia e Germania viaggiano sulla stessa lunghezza d'onda, un assetto di controllo a carattere nazionale non è uno svantaggio. Ma lo diventerebbe se s'imponesse un altro modello. Chiaro?». Chiaro. Noi, però, siamo sempre in retroguardia. Nel capitalismo italiano, in questi anni, è cambiato ben poco... «Mica vero. Grazie alle privatizzazioni sono cresciuti fenomeni come Benetton, un gruppo nato in un settore tipico dei distretti industriali e cresciuto nei servizi come potrebbero crescere altri campioni dei distretti. E vogliamo dimenticare Colaninno?». E' un fenomeno virtuoso? «E' virtuoso che possa nascere. Poi giudicherà il mercato» L'Italia cresce, insomma. Nonostante tutto... «L'importante è che crescano gli imprenditori. Vede, il mercato è una leva formidabile per attrarre risparmio e per attivare certi investimenti. Ma se un Paese non riesce a creare nuove imprese avanzate, in grado di offrire lavori ad alto reddito, questa ricchezza, una volta remunerati i risparmi, finirà altrove, sotto forma di profitti o di plusvalore, come lo chiamava Marx. E a noi resterà solo il denaro da spendere in consumi di prodotti multinazionali e posti di lavoro con remunerazioni allineate a quelle di Paesi a bassa tecnologia. Chiaro?». Chiaro, la sfida per il progresso non si gioca solo in Borsa o nei salotti, vecchi e nuovi. E un capitalismo come il nostro non può concedersi il lusso dei dogmi o delle certezze più stereotipate. «Tipo quella - chiude Gros-Pietro - che voleva Tiri in fallimento. Abbiamo ripagato i debiti, distribuito dividendi, verseremo allo Stato tra plusvalenze e patrimonio netto una somma stimabile tra i 20 e i 30 mila miliardi prima di chiudere i battenti». Merito vostro...«Non solo, ma anche della ripresa economica italiana. Qualcosa, molto è cambiato, mi creda...». «All'Iri il mio mandato era la privatizzazione Ora all'Eni si richiede di generare valore» «Prima di chiudere verseremo allo Stato 20-30 mila miliardi» necessarie per attribuire» a Sanpaolo l controllo di Banconapoli quello di Bnl Vita, della rete Inasim e di Proxima. Le dichiarazioni del presidente dell'Ina, Sergio Siglienti, riflettono questo senso di gelo nei confronti di un alleato, il Sanpaolo, col quale nelle ultima tre settimane i vertici della questo accordo per Generali». TALIANO A sinistra Rainer Masera A destra Gian Maria Gros-Pietro * cui si sommerebbero altri 525 proRaccolta indiretta 311.00Risparmiogestito 136.00Credit! alia clienteia 139.00Filial! in Italia 13Filial) all'estero Promontori finanziari 46Dipendent. 24.2«Privers20-3 A sinistra Rainer Masera A destra Gian Maria Gros-Pietro Alfonso Desiata

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