Quegli anni da «osservato speciale»

Quegli anni da «osservato speciale» UNO SLALOM TRA NOTIZIE OSCURE^ONTI SOSPETTE E SORVEGLIANZA CONTINUA Quegli anni da «osservato speciale» Un giornalista nella Mosca in cui regnava ilKgb ricordo Giuliette Chiesa Aquei tempi, quelli in cui cominciai questo mestiere, il corrispondente da Mosca doveva presentare le sue credenziali al ministero degli Esteri sovietico. Io, che cominciai come corrispondente di un «giornale fratello», «l'Unità», dovetti percorrere un'altra traiettoria: passare attraverso il beneplacito della Sezione Esteri del Comitato Centrale del Pcus. Fu una sinusoide, nel senso di alti e bassi. Non me lo davano il beneplacito. Ci volle quasi un anno. Finché l'allora direttore, Alfredo Reichlin, non concluse che un'ulteriore dilazione avrebbe significato semplicemente che il corrispondente da Mosca de «L'Unità» lo sceglieva la «Staraja Ploshad», la Piazza Vecchia, appunto la sede del CC. Cosa ormai impraticabile, sotto ogni profilo, in quel 1980 che aveva fatto seguito all'intervento sovietico in Afghanistan. Alla lettera-ultimatum del Comitato Centrale del Pei risposero che potevo partire. E, il primo ottobre 1980, scrissi la mia prima corrispondenza da Mosca. Ricordo che, prima di partire per Mosca, giornalista con soli sedici mesi di esperienza, avevo chiesto qualche suggerimento ai miei predecessori e a qualcuno di quelli che sapevo essere passati di là con altre funzioni: universitari, discepoli delia scuola di partito, futuri dirigenti di partiti comunisti e non soltanto, futuri imprenditori delle Cooperative di sinistra. Devo dire che il suggerimento migliore me lo diede Antonio Rubbi: «Stai alla larga dagli uomini d'affari». Lo seguii e devo dire che ne fui contento. Per il resto fu Beppe Boffa a fornirmi la chiave: «Sarai sempre sotto gli occhi di qualcuno. Per cui non c'è che un solo modo per stare tranquilli: non avere segreti». Un bel dire, ma non avere segreti un una società dove il segreto era la nonna era impresa pressoché impossibile. Il fatto stesso che qualcuno mi frequentasse era per lui - salvo quelli che erano «autorizzati» - un segreto. Io, accettando di frequentarlo, diventavo parte di un segreto, o presunto tale. E, per chi voleva capirci qualche cosa, questo tipo di segreti diventavano inevitabili. Il fatto di essere un corrispondente comunista non alleggeriva il compito. La sorveglianza c'era lo stesso. Per il corrispondente di un giornale comunista in forte odore di eresia, ancor peggio. La quantità d'informazione addizionale che si riceveva, in quelle condizioni, era meno di zero. Letteralmente. Salvo qualche occasione di viaggio in zone più o meno esotiche, cui ai corrispondenli «borghesi» non era concesso di accedere. Ma, per il resto, se qualcuno, lassù nelle segretissime stanze del Potere, desiderava fare uscire qualche informazione «riservata», ebbene non andava di certo a regalarla a un povero corrispondente di giornale comunista e la «riservava» invariabilmente agli odiati giornali «bor¬ ghesi», insospettabili di parzialità e con più lettori. Così lo slalom tra le righe diventava l'unico modo per discendere a valle. E risalire lassù si poteva solo zigzagando tra le parole di fonti di cui era d'obbligo sospettare. Ricordo passeggiate infinite lungo il Leningradiskij Prospekt e, anni dopo, sul lungofiume, con l'assoluta, matematica certezza di essere fotografato a ogni muover di sopracciglio. Spesso inutili, perché colui clic ti aveva offerto l'appuntamento non solo non aveva niente da dirti, ma aveva lo scopo precipuo di farti dire qualche cosa che, all'occorrenza, magari venti anni dopo, avrebbe potuto incastrarti. Se avessero pensato che vent'anni dopo neanche il Kgb sarebbe più esistito, forse avrebbero risparmiato energie, ma allora pensavano di essere eterni. E anch'io, per essere sincero, pensavo che lo fossero. Frano gli anni dell'agonia di Leonid Breznev. Imparai che anch'io potevo essere interessante per qualcuno che aveva bisogno di fare uscire informazioni. Imparai anche una cosa che mi è servita non poco in seguito, anche fuori dall'Urss e dalla Russia: cerca di capire subito per quale squadra vorrebbero che tu giocassi. Perché certe informazioni, succose, esclusive, perfino vere, quando ti arrivano sul tavolo come un dono della provvidenza, talvolta servono a scopi che possono essere anche poco puliti, a disegni niente affatto limpidi. Ti regalano uno scoop facile, e tu abbocchi come un allocco, centravanti di una squadra che - se la conoscessi non sarebbe probabilmente la tua. Ma la tentazione è forte, quasi irresistibile. E in quei casi le faccende sono costruite in modo tale che tu non puoi l'are controlli incrociati, secondo le regole d'oro (che nessuno segue) del giornalismo anglosassone: prendere o lasciare. Così rischiai, quando mi dissero che era morto Molotov. Poteva essere una bufala. Non potevo verificarla. Mi fidai perché chi me lo aveva detto era persona al di sotto di ogni calcolo politico, che si era trovata nella clinica del Cremlino, ad ascoltare;involontariamente un racconto di terzi!'Fu il mio primo scoop. Un brivido: con i colleglli americani, un po' invidiosi, che chiamavano per diro, cavallerescamente: «Good story», e farei raccontare i dettagli politici, la macchina nera del Comitato Centrale, l'attenzione del partito per lo sconfitto che, a un primo sguardo, avrebbe dovuto essere dimenticato per sempre. Piccole cose, viste a distanza, ma che allora potevano segnalare grandi svolte, movimenti minori, impercettibili, die annunciavano il terremoto. Non abboccai invece quando mi regalarono la notizia dell'arresto di uno stretto familiare di Leonid Breznev. E feci male, perché era vera. Ma forse feci bene, perché quella «fonte» spari per mesi e mesi, finché me la trovai seduta, due file dietro di me, nel cinema della Piazza Majakovskij. Sedeva nella penombra e, quando i miei occhi all'improvviso, per caso, s'incrociarono nei suoi, ebbe un soprassalto quasi ferino. Comunque Boffa aveva ragione. Era l'unico modo per non diventare matti, per non perdersi nei meandri delle disamine delle possibili mosse e contromosse di un caccia dove l'unico ruolo che ti era assegnato era comunque quel- lo del topo. Non ho mai trovato microfoni nelle case in cui ho vissuto a Mosca in questi anni. Ma non mollo tempo fa una mia amica mi telefonò al ritorno da un viaggio a Madrid. Per raccontarmi dell'incontro casuale, al tavolino di un caffè vicino al Museo del Brado, con un signore russo. Scambio di convenevoli, tra compatrioti all'estero che hanno riconosciuto la lingua materna, e poi scatta (niella strana confidenza che nasce dall'intuizione di trovarsi di fronte a una persona che non rappresenta una minaccia, e che ispira simpatia. Ciascuno comuncia a spiegare perchè si trova proprio in quel posto e in quel momento, poi si passa ai conoscenti comuni, i'ra i quali, con grande sorpresa della mia amica, ci sono anch'io, con mia moglie. «Ma come, lei li conosce?» Il distinto signore pare abbia sorriso arrossendo un poco: «Vede, io non li conosco di persona. Non so come sono fatti, ma se molto di loro. Ero io che battevo a macchina i nastri delle registrazioni». Mai trovato microfoni nelle case che ho abitato ma tempo fa un'amica incontrò un signore russo e parlarono di me «Lo conosce?» «Non di persona. Non so come è fatto, ma so molto di lui. Battevo a macchinai nastri delle registrazioni» Nella foto sotto: Leonid Breznev Erano quelli gli anni dell'agonia del capo del Cremlino Un'immagine della capitale sovietica all'inizio degli Anni Ottanta

Persone citate: Alfredo Reichlin, Antonio Rubbi, Beppe Boffa, Boffa, Giuliette Chiesa, Leonid Breznev, Molotov

Luoghi citati: Afghanistan, Madrid, Mosca, Russia, Urss