Sopravvissuti al naufragio

Sopravvissuti al naufragio Sopravvissuti al naufragio CARO Camon Innanzitutto grazie per il tono alto, profondo e serio con cui ha parlato, su «La Stampa», del mio Fuori luogo. Non è la regola (in molti, soprattutto tra i politici, ne hanno discusso in questi giorni senza neppure averlo aperto), e gliene sono grato. Devo però confessarle che il tema che ha voluto mettere al centro della sua riflessione - la «civiltà» dei Rom, il valore e la «tenuta» della loro cultura nel contatto con la nostra -, io in realtà non avevo neppure osato accostarlo. Posso aver dato un'impressione diversa, ma non sono un esperto di cultura zingara, e d'altra parte ho trascorso troppo poco tempo a contatto diretto con un gruppo, assai anomalo, di Rom, per pretendere di formulare un giudizio, e tantomeno elaborare un «paradigma». Le poche settimane di frequentazione e qualche notte trascorsa al campo di corso Cuneo, a Venaria, hanno potuto appena darmi un idea di come appaia il mondo visto dall'altra parte, dal di sotto, dal punto di vista di chi ne sta al fondo (un'esperienza conoscitiva che comunque consiglierei a tutti per la sua utilità). Nulla dì più. Le pagine che Lei cita sulla vita quotidiana al campo, la sobrietà dei consumi, le relazioni senza competizione, l'arte di riciclare i nostri rifiuti, gli stessi «sorrisi», volevano rispondere all'interrogativo su come quegli uomini ■ e quelle donne possano sopravvivere con poco o nulla, anche senza necessariamente rubare o danneggiare la comunità che sta attorno. Non certo elaborare una sorta di mito del «buon selvaggio». Se vogliamo dirlo con una semplificazione, quello che mi interessava, con Fuori luogo, era più capire noi, il nostro grado di civiltà politica e amministrativa, attraverso il rapporto con 1'«Altro» - con il più difficile e problematico tra gli altri, il «nomade» che non tratteggiare un ritratto di quest'ultimo (che sarebbe inevitabilmente sfocato e impreciso). Detto questo, voglio aggiungere che sono del tutto d'accordo con la sua tesi di fondo: l'immigrato che giunge qui al termine di un lungo viaggio al fondo della notte, porta dentro di sé un modello culturale lacerato e vinto, non un'alternativa possibile e positiva. Ha vissuto la propria «fine del mondo» (del proprio mondo) là, nel punto in cui la traiettoria è iniziata, nella propria terra d'origine, sotto forma di apocalissi culturale, di taglio delle radici, di dissoluzione della propria originaria identità. Per questo emigra, appunto. Perché ha perso il proprio passato. Ed il futuro che noi gli prospettiamo ha vinto. Come un naufrago, non ha sostegni da offrire ma solo la ricerca affannosa di una qualche terra ferma cui approdare. E la nostra civiltà «opulenta» - con le proprie ostentazioni e i propri sprechi - è, da questo punto di vista, una terra ferma. Anzi, una terra promessa per chi fugge miseria, persecuzioni, morte. Ma proprio per questo le nostre «promesse non mantenute» (verso di «loro», ma anche verso di «noi», sradicati a nostra volta, e mutati un po' in «nomadi» noi stessi da una trasformazione troppo impetuosa) suonano ancora più amare. Perché come Sirena attirano sugli scogli decine di migliaia di naufraghi, e lì rischiano di abbandonarli, privi di cura e di ascolto. Senza contare che il naufrago almeno una cosa l'ha imparata e può insegnare: a sopravvivere al naufragio. A restare a galla quando ogni appoggio si è inabissato. Un'arte che potrebbe venirci utile in un qualche futuro, se qualcosa nei meccanismi ben oliati della nostra macchina economica dovesse andare storto... Molto altro vorrei aggiungere, ma lo spazio è tiranno. Con stima. Marco Revelli

Persone citate: Camon, Fuori, Marco Revelli, Sirena

Luoghi citati: Venaria