«La generosità none tradita» di Francesco Grignetti

«La generosità none tradita» IL VICEDIRETTORE DELLA CARITAS REPLICA Al SOSPETTI «La generosità none tradita» fendendo indumenti finanziamo l'assistenza» intervista Francesco Grignetti D ON Antonio Cecconi è il vicedirettore nazionale della l.'aritas, braccio destro di don Livio Dannili. Da qualche giorno i due sacerdoti sono sulla graticola. «Ci sentiamo mortificati». Ingiustamente, dicono, perché sarà pur vero che nelle discarichi! di mezza Italia stanno venendo fuori quintali di vestili abbandonati, ma «la carità cristiana non sono gli indumenti vecchi nei sacchetti, sono i 20 miliardi che stiamo spendendo in Kosovo». Don Antonio, ci spieghi lei che cosa è la carità secondo la Caritas. «Una premessa. Duello che i carabinieri stanno trovando nelle discariche non sono aiuti umanitari. Niente a che vedere con il Kosovo, ad esempio. Sono stracci che alcune Caritas raccolgono a fini di autofinanziamento. Rastrellano vestiti come potrebbero accumulare carta o vetro. Questi materiali poi vengono rivenduti a ditte che si occupano di riciclaggio. E con i soldi finanziano l'assistenza. La gente che ci aiuta però lo sa bene che quei vestiti finiranno agli stracciaroli. In genere si fa una volta l'anno: le parrocchie contattano le persone, indicano una data, poi passano i gruppi giovanili che raccolgono i sacchetti e infine il tutto viene venduto a ditte». Ma nella spazzatura si sono trovati i sacchetti con la stampigliatura della Caritas di Perugia o di Milano. «Ovvio. Anche i sacchetti vengono preparati per questo tipo di raccolta». Kd è normale, vestiti o stracci che siano, che finiscano buttali nei campi? «Normale no. Però, una volta che è stato fatto un contratto, è merce che cessa di essere sotto la nostra responsabilità. Ilo fatto un controllo con quattro delle cinque Caritas di cui si parla in questi giorni. Mi hanno fatto vedere tutte le bolle di carico che documentano i trasporti fino alla ferrovia». Ma come vi spiegate i ritrovamenti di questi giorni? «Due ipotesi: la prima è che ci sia una o più organizzazioni che si inseriscono nella raccolta. Qualche segnalazione l'avevamo anche avuta, per la verità. Passano prima degli incaricati e portano via i sacchetti che la gente ha messo fuori della porta. O forse le ditte di Prato subappaltano una parte del loro materiale ad altri e i vestiti prendono strane vie». Lei esclude che qualche Caritas abbia preso e buttato via le eccedenze di vestili che sono arrivate in dono durante l'emergenza Kosovo? Ad aprile lanciaste un appello a fermare le donazioni perché avevate i locali pieni. «L'successo in qualche realtà localo, ma l'indicazione era di raccoglie¬ re solo offerte in contanti. Sono anni che la Caritas indice collette per gli aiuti. Ed è proprio perché conoscevamo la difficoltà di gestire gli indumenti usati che anche per il Kosovo abbiamo invitato le persone a donare soldi. E' dai tempi del terremoto in Irpinia che ci siamo resi conto che non dovevamo accettare indumenti. 1 nostri volontari erano assorbiti dalla selezione e l'impacchettatura di vestiti. Un volume di lavoro immenso e poche soddisfazioni: d'inverno magari arrivavano i vestiti d'estate e viceversa. Anche perché, me lo lasci dire, c'è sempre la cattiva abitudine di svuotare gli armadi e donare le scarpe rotte. Anni fa avemmo una polemica con Benetton: lui invitava a portare i maglioni usati e cambiarli con quelli nuovi, «così aiutiamo le organizzazioni umanitarie». Eh no! La nostra controcampagna fu: quest'anno accontentati di un maglione vecchio e al povero compra un vestito nuovo». Insomma avete rovesciato il concetto: soldi, non opere di bene. «Ma no. E' un bene se l'emergenza muove i cuori, ma è meglio muovere le teste. Se hai i soldi, gli aiuti li compri sul posto: meno spese, niente dogana, niente trasporto, incoraggi l'economia locale. Pochissimi sprechi». E' quanto è successo all'Arcobaleno, no? «Diciamo che lo Stato s'è messo a fare un mestiere che non era il suo. Forse, se prima avesse chiesto consiglio a chi se no occupa da anni, si potevano evitare o ridurre i disguidi. Noi della Caritas partiamo dai bisogni: il modo migliore è mettere in contatto le Caritas locali e quella italiana. Da lì partono le richieste, da qui gli aiuti. Varie Caritas hanno acquistato brandine e materassi, ad esempio, perché questo chiedevano i kosovari». Si corre il rischio che molti italiani si sentano traditi nel loro sforzo di generosità. «E' vero. Ed è per questo che ci sentiamo mortificati. Perché se si fa tutta questa confusione tra gli stracci con gli aiuti umanitari finisce che la gente pensa: oltre che del governo, non ci si può fidare nem meno della Caritas!».

Persone citate: Antonio Cecconi, Benetton, Livio Dannili

Luoghi citati: Italia, Kosovo, Milano, Perugia, Prato