Caso Di Maggio, è scontro sui pentiti di Giovanni Bianconi

Caso Di Maggio, è scontro sui pentiti Si riaccende la polemica, il sottosegretario Maritati: «I collaboratori sono un bene fondamentale» Caso Di Maggio, è scontro sui pentiti Il Polo: «Gestione alla bancarotta» Giovanni Bianconi ROMA Alla vigilia della sentenza palermitana del processo Andreotti, il «caso Di Maggio» riaccende la polemica sui pentiti. li il sottosegretario all'Interno Alberto Maritati, fino a pochi mesi fa procuratore aggiunto della Dire/Jone nazionale antimafia, accusa: «La manovra politica di parte dell'opposizione, che mira ad attaccare la gestione dei pentiti, è maldestra». Secondo l'ex-magistrato i collaboratori di giustizia sono stali e restano fondamentali nella lotta contro le organizzazioni mafiose, «e non si deve abbassare la guardia: la manovra miope e dannosa si risolve in un attacco alle forze di polizia e alla magistratura inquirente come se l'emergenza criminalità fosse conclusa, cosa che non è». Ma l'allarme sulla gestioni! dei pentiti non arriva solo dall'opposizione. Il presidente; della commissione antimafia Ottaviano Del Turco, che ha chiesto gli atti della testimonianza di Di Maggio, dice: «Se vogliamo salvare l'istituto dei collaboratori di giustizia dobbiamo essere impietosi contro le deformazioni che ne hanno minato la credibilità. Se un uomo sottoposto a protezione dagli assalti della mafia utilizza il servizio di protezione per assalire lui, c'è qualcosa che non va, e noi dobbiamo capire che cosa non ha funzionato». Poi ci sono le dichiarazioni di Pini (quella di Di Maggio è una confessione «semplicemente agghiadante», che dimostra come «lo Stato in molte circostanzi.' è alla bancarotta») e di Casini: i delitti confessati dal pentito del presunto bacio tra Andreotti e Rima, dice il leader del Ccd, rappresentano «il de profundis sul modo in cui i pentiti sono stati gestiti; dopo quelli jube-box oggi abbiamo i pentiti pagati dallo Stato, ospiti dell'Arma dei carabinieri, ci»; vanno in giro a commettere omicidi per il Paese». L'aOsservatore roma¬ no» scrive che siamo di fronte a «un'allarmante conferma della pentitocrazia», mentre il responsabile giustizia dei Ds Carlo Leoni rintuzza li; accuse: «Chi descrive uno Stato allo sbando o in balia di falsi pentiti commette un errore gravissimo sapendo di dire, per pure ragioni di propaganda, cose assolutamente falsi;; noi vogliamo piìi rigore ed efficacia nell'uso dei collaboratori, la destra vuole smantellare e cancellare questo strumento». Fini e Casini chiedono una nuova legge sui collaboratori di giustizia (il disegno di legge presentato dal governo Prodi due anni e mezzo fa è ancora in discussione al Senato), mentre il capo della polizia Fernando Masone tenta di spiegare i termini del «caso Di Mag¬ gio». Al di là del clamore suscitato dalle confessioni dell'altro ieri, afferma, non c'è connessione tra i delitti commessi dal pentito e le dichiarazioni da lui rese in precedenza: «Bisogna guardare ciò che ha detto Di Maggio, vale a dire i riscontri obiettivi. Non è che siccome ha confessato un omicidio tutto ciò che ha detto in precedenza ed è stato riscontrato non è valido; sarebbe una cosa priva di logica». E sui programmi di protezione che non hanno impedito la commissio¬ ne di nuovi reati Masone aggiunge: «Il collaboratore di giustizia è una persona che viene tutelata da noi; non c'è una vigilanza sulla persona nell'eventualità che possa delinquere, perché altrimenti faremmo un altro tipo di attività». Il procuratore di Palermo Piero Grasso, che da poco ha lasciato la commissione ministeriale sulla gestione dei pentiti, è ancora più chiaro: con le norme attuali il personale addetto alla protezione serve «a proteggere l'incolumità del collaboratore attraverso la mimetizzazione dello stesso e della sua famiglia nel territorio, non certo per controllarlo né per proteggere la società da eventuali ricadute nel delitto». Grasso ricorda che la Procura di Palermo, appena avuta la notizia dei nuovi reati, ha arrestato Di Maggio, chiedendone successivamente la condanna, e sul «caso Di Maggio» chiarisce: «Dopo la scarcerazione il programma di protezione non prevedeva, per Di Maggio come per ogni altro collaboratore, alcuna limitazione alla sua libertà, né alcun controllo, ed è in questo periodo che è stato commesso l'omicidio confessato». L'avvocato Franco Coppi, difensore di Andreotti nel processo di Palermo dove Di Maggio è uno dei principali testi d'accusa, ricorda che tutta questa storia è nota da quasi due anni, e che «i fatti ammessi dal pentito erano già stati acquisiti» all'inizio del 1998. «Io mi meraviglio della meraviglia che, a scoppio ritardato, molte autorità stanno esternando», continua il legale che poi rivela: lui stesso segnalò «queste cose terribili sulla gestione di un pentito del calibro di Di Maggio» all'allora presidente della Repubblica Scalfaro. Un altro ex-capo dello Stato, Francesco Cossiga, commenta ironico: «presenterò un disegno di legge per regolare il numero di omicidi che i pentiti preferiti dai pm possono commettere; fino a tre sì, dopo non sono più pentiti». Masone: «Sulle dichiarazioni del mafioso ci sono riscontri obbiettivi». Il procuratore Piero Grasso: «Balduccio non era controllato» Un'aula durante un processo. Accanto, il prefetto Masone

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