E D'Alema disse: «Ciampi premier» di Fabrizio Rondolino

E D'Alema disse: «Ciampi premier» UN ANNO FA IL PASSAGGIO Di TESTIMONE NEL RACCONTO DEL PORTAVOCE DELL'ALLORA SEGRETARIO DS E D'Alema disse: «Ciampi premier» La vera storia della caduta del governo Prodi retroscena Fabrizio Rondolino ■ fatti che portarono, il 9 otto- ■ bre di un anno fa, alla caduta Hdel governo Prodi ricordano da vicino la storiella di Pierino e il lupo. Fin dalla sua nascita, infatti, quel governo fu costretto a fare i conti con la minaccia bertinottiana. E un anno prima la crisi era stata davvero sfiorata. Nell'autunno dell'anno scorso, dunque, le nuove minacce di Fausto Bertinotti apparvero, prima di tutto all'opinione pubblica, come la riproposizione di un copione già scritto. Fausto Bertinotti avrebbe scalciato e minacciato, dopodiché come al solito avrebbe chiuso un accordo. Il lupo, tuttavia, quella volta arrivò davvero e si mangiò Pierino. Settembre s'era aperto con un vertice di maggioranza nel corso del quale Bertinotti aveva minacciato fuoco e fiamme. Per quel.che ricordo, tuttavia, né Romano Prodi né Massimo D'Alema sembrarono preoccuparsi più di tanto. Non sottovalutavano le richieste di Rifondazione, ma erano convinti che alla fine tutto si sarebbe sistemato - tanto più che la nuova Finanziaria sarebbe stata assai meno dolorosa di quella precedente. Al termine di un lungo colloquio con il leader di Rifondazione - sarà stato intorno alla metà del mese - D'Alema cambiò improvvisamente sia la propria valutazione dei fatti, sia il proprio umore. Si convinse che Bertinotti avrebbe aperto la crisi «a prescindere»: cioè per una scelta di fondo, insieme politica e ideologica. Un nuovo incontro, questa volta anche con Franco Marini, nello studio del presidente della Camera Violante non diede risultati migliori. Anzi. D'Alema aveva da tempo in programma un viaggio in Sudamerica per la fine di settembre. Dopo il fallimento della Bicamerale D'Alema non soltanto aveva più tempo a disposizione ma, se così si può dire, intendeva tenersi un poco lontano dalla politica interna - probabilmente anche per dimenticare quel fallimento ad un passo dal traguardo. D'altra parte, quando il viaggio fu programmato il barometro della politica italiana segnava calma piatta. D'Alema partì per il Sudamerica con uno stato d'animo particolare. L'antica strategia militare cinese, di cui D'Alema è cultore, suggerisce infatti di non andare mai alla battaglia in campo aperto, ma di predisporre le condizioni della battaglia così da poterla vincere senza guerreggiare. In quei giorni dunque cominciarono a delinearsi alcuni scenari. La spaccatura di Rifondazione era un dato certo (Armando Cossutta garanti già a luglio la scissione, promettendo però un numero di parlamentari lievemente superiore a quello che effettivamente riuscì a portare con sé). E c'era l'Udr di obre ro ro ato»: uidare Chigi? m Francesco Cossiga: Prodi s'era già avvalso dei loro voti quando si trattò di approvare in Parlamento l'allargamento ad Est della Nato (Rifondazione votò contro). Di conseguenza, era ragionevole ipotizzare una nuova maggioranza capace di incassare la fuoriuscita di Bertinotti senza danni sostanziali. Nella testa di D'Alema, a capo di quella maggioranza doveva restare Prodi. Bisogna essere chiari su questo punto. D'Alema, probabilmente fin dalla vittoria dell'Ulivo nell'aprile del '96, aveva spesso pensato a questo calendario: allo scadere del settennato di Oscar Luigi Scalfaro, nella primavera del '99, Prodi sarebbe stato un candidato perfetto per il Quirinale (sempreché, naturalmente, l'avesse voluto). In quel caso, e soltanto in quel caso, sarebbe stato legittimo, se non automatico, che l'« azionista di riferimento» della maggioranza assumesse la guida del governa. Le cose, come sappiamo, andarono diversamente. Il punto non era però la rottura di Bertinotti, sancita il 3 ottobre ma già nota da almeno due settimane, bensì la gestione della crisi. La linea di D'Alema era semplice: Prodi avrebbe dovuto andare in Parlamento a chiedere i voti di tutte le forze che avevano approvato il Dpef, compresa dunque l'Udr. Con i voti di Cossiga e di Cossutta il governo avrebbe potuto tranquillamente arrivare all'approvazione della Finanziaria, dopodiché, a gennaio, si sarebbe dato vita ad un nuovo governo Prodi, con ministri cossuttiani e cossighiani. D'Alema suggerì questa strada già dall'Argentina, nel corso di due lunghe telefonate con lo stesso Prodi e con Scalfaro. Né Prodi né il suo braccio destro Arturo Parisi erano però della stessa opinione. Per molti motivi, ma per uno in particolare: non volevano una fiducia «a termine». Palazzo Chigi, del resto, era convinto che, seppur per un voto o due, il governo si sarebbe salvato senza l'Udr dopodiché, da una posizione di forza, si sarebbe aperta la trattativa con Cossiga. Per quanto paradossale possa suonare, il governo cadde davvero per un errore di calcolo. Nei giorni immediatamente precedenti il 9 ottobre - il giorno del dibattito alla Camera D'Alema cercò di raccattare voti ovunque gli capitasse. Chiamò almeno due volte Umberto Bossi, per chiedergli di «mettere in malattia» un paio di suoi deputati (Bossi ci pensò, poi rispose che non sarebbe stato capace di reggere l'urto di Forza Italia e aggiunse con una risata: «Tanto poi ci vai tu, là...»). Marco Minniti era invece in continuo contatto sia con Cossutta, cosi da tener aggiornata la conta degli scissionisti, sia con Cossiga. La trattativa con l'Udr, tuttavia, si trovava ad un punto morto: Prodi infatti rifiutò fino all'ultimo di chiedere per la Finanziaria epici voti che pure aveva chiesto (e ottenuto) per la Nato, mentre Parisi ancora la sera prima del voto di fiducia giurava di avere la maggioranza senza l'Udr, contestan¬ do le tabelle che gli erano arrivate da Botteghe Oscure e che profetizzavano la distaila. All'alba di venerili 9 ottobre. Minniti ebbe un ultimo, lungo e drammatico incontro con Cossiga per convincerlo di consentire ai tre parlamentari eletti cui «patto Segni» (dunque nell'Uli voi e passati poi all'Udr di votare la fiducia a Prodi. Onci giorno Repubblica pubblicava però un'intervista al Verde Lui- gi Manconi in cui si diceva «mai con l'Udr». Cossiga sospettò che quell'intervista fosse autorizzata da palazzo Chigi e spiegò a Minniti che, a quel punto, non si poteva fare più nulla. In aula, Luciano Violante chiese a Prodi, al termine del suo intervento, se non avesse qualcosa da aggiungere. Fu l'ultima possibilità di rivolgere un appello all'Udì". Prodi negò con un cenno della mano e Violante apri le votazioni. 313 si, 314 no. Sabato 10 ottobre, D'Alema andò a Bologna per convincere Prodi ad accettare il reincarico. Pranzarono insieme. D'Alema usòì da quel colloquio certo che Prodi volesse le elezioni. Riuscì a stonto a convincerlo ad affacciarsi con lui dalla finestra, a beneficio delle telecamere, Per il resto, il gelo. E infatti il giorno dopo Prodi dichiarò pubblicamente, e con grande enfasi, che mai e poi mai sarebbe tornato sui suoi passi. Quella stossa domenica D'Alema in gran segreto se n'era andato a Santa Severa a trovare Carlo Azeglio Ciampi. L'ipotesi cui già si stava lavorando era quella di un governo-fotocopia con Ciampi a palazzo Chigi per approvare la Finanziaria. Poi, a gennaio, si sarebbe deciso comi! proseguire. L'allora ministro del Tesoro, pur fra molti dubbi e dopo una lunga telefonata con Scalfaro, offrì la propria disponibilità. La mattina di martedì 13 ottobre, tuttavia, Enrico Micheli - allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio - chiamò Minniti e più o meno gli chiese: «Ma che no direste se Romano provasse a rifare il governo?». Prodi dunque aveva cambiato idea: forse perché - si ipotizzò in quei giorni - un suo eventuale fallimento avrebbe spianato la strada alle elezioni (che peraltro Scalfaro non aveva alcuna intenzione di concederti). Corto è che per come si erano mosse le cose, in pochi scommettevano sulla riuscita di Prodi. Cossiga ormai gli intimava di dichiarare formalmente morto l'Ulivo. Il presidente incaricato, per la verità, lo fece nel corso di un drammatico vertice andato in scena la sera di mercoledì 14, nel suo appartamento privato di palazzo Chigi, sottoscrivendo un documento in cui si parlava di «maggioran¬ Peril Prosi cerc«Due potrdarsi za del Dpef» e non più di Ulivo. A Mastella, tuttavia, bastò osservare che la riunioni! ora da considerarsi impropria (perché vi partecipava, per l'appunto, soltanto l'Ulivo e perché si svolgeva nella sede del governo) per sancire la fine del tentativo di Prodi. Erano le otto di sera di mercoledì 14. D'Alema se ne andò a casa convinto che sarebbe toccato a lui: «Aspettiamo sereni - disse - il sorgere del sole». Il sole, per la verità, faticò un poco a sorgere. Minniti passò la notte con Marini, e lo convinse a dare il via libera (il leader popolare avrebbe preferito un «governo tli transizione» tino alla primavera). D'Alema chiese e ottenne che fosso Prodi, a nome dell'intero Ulivo, a desi gnarlo come successore. Scalfaro e Cossiga, ciascuno per la propria strada, sondarono e almeno in parte convinsero settori importanti della Chiesa. Dal mondo finanziario e industriale giungevano perplessità mescolate a caute aperture. Quanto a Scalfari), il presidenti' era stalo chiaro: l'incarico a D'Alema lo do - questo il suo ragionamento - soltanto se ho la cortezza che riuscirà nel tentativo, per la buona ragione che se D'Alema non ce la fa le elezioni sono inevitabili. Por quarantott'ore, fra la notte tli mercoledì 14 e il pomeriggio di venerdì 10, all'ottimismo s'alternava il pessimismo, alla speranza la delusione. Ne resta traccia in una frase sconsolata pronunciata da D'Alema, sul palcoscenico del Costanzo Show, giovedì 15: «Siamo figli di un tlio minore...». Non so se sia stato risolutivo, ma certo fu decisivo un lungo colloquio che D'Alema ebbe con Cossiga venerdì Di ottobre. D'Alema ne usci colpito, scosso, emozionato: il che, come si sa. non accade tutti i giorni. Di quel colloquio raccon- tò molto poco, ma fece capire che in gioco non ora tanto la soluzione tli una crisi di governo - una delle tante -, quanto la conclusione di un'intera fase della storia repubblicana, che avrebbe potuto probabilmente chiudersi molti anni prima se Aldo Moro non fosse stato rapito e assassinato dalle Brigato Rosso. Insomma, finiva la «guerra civile fredda». Nel pomeriggio un'auto con i vetri oscurati entrò nel garage di Botteghe Oscure. Arrivava dal Quirinale. I cronisti, di fronte al portone principale, montavano la guardia alla blindata di D'Alema. Il segretario del Pds uscì dal suo ufficio in fondo al secondo piano, salutò i collaboratori, scese noi garage, salì sull'auto e senza essere visto lascio il Bottegone. Si fece portare a casa per cambiarsi d'abito. Poi l'auto puntò sul Quirinale. Scalfaro volle parlare a lungo con D'Alema. Poi la presidenza diramò un comunicato per convocare formalmente l'uomo che già da due ore era ospite del palazzo e che di lì a poco avrebbe ricevuto l'incarico di formare il nuovo governo. Nell'autunno del 1998 nessuno credeva alle minacce di Fausto Bertinotti Sembrava un vecchio copione ma poi il lupo mangiò Pierino Cossutta già nel mese di luglio aveva garantito la scissione ma poi riuscì a portare con sé meno parlamentari di quelli che aveva previsto L'11 ottobre il ministro del Tesoro fu «sondato»: voleva guidare Palazzo Chigi? Per salvare il Professore si cercò Bossi: «Due dei tuoi potrebbero darsi malati?» Il passaggio delle consegne fra Romano Prodi e Massimo D'Alema a Palazzo Chigi Questa foto fu scattata il 21 ottobre dell'anno scorso Sopra Armando Cossutta e a sinistra il segretario di Re Fausto Bertinotti In basso Carlo Azeglio Ciampi e (a destra) il leader del Carroccio Umberto Bossi

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