I molti popoli della giungla di Giuseppe Zaccaria

I molti popoli della giungla I molti popoli della giungla Rifugiati, miliziani, guerriglieri, antiche tribù reportage Giuseppe Zaccaria inviato a GIAKARTA MAN mano che risaliamo le montagne, Timor sembra chiudersi contro di noi. Cominciamo le piogge, la malaria è più cattiva che mai le scorte di riso sono scarse, il sale un sogno. In questo clima umido sudiamo come fontane, perdiamo ogni vigore, lecchiamo il sudore dalle nostre braccia solo per per sentire un sapore vagamente salino...». E' il settembre del 1943 e un tenente australiano di nome Ardue Campbell sta vivendo a Timor il terzo anno di guerriglia contro i giapponesi. La sua unità, il «Second Indipendont Battaillon», sarà l'unica in tutto il Pacifico a non essersi arresa all'invasione giapponese, per anni terrà testa a 2Umila soldati dell'Imperatore. Quest'epopea sarà condensata in un libro di memorie dal titolo «The Doublé Reds of Timor» che oggi, quando il ruolo dell'«invasore umanitario» tocca agli australiani, può apparire imbarazzante ma è una miniera d'informazioni soprattutto sul cuore impenetrabile dell'isola, quello in cui adesso si nascondono fuggitivi e banditi. Le montagne, la giungla, in regno degli «Aton». E'questa la popolazione più antica dell'isola, che ancora chiama Timor «Pah meto», cioè la terra senz'acqua. La genìa primitiva che lentamente a ogni nuovo sbarco di colonizzatori si ritirava più a monte arretrando nella giungla i propri villaggi, i propri costumi, i propri re. Basta uscire di pochi chilometri dai centri abitati per ritrovarsi in un territorio ancora governato dalle leggi dei «kerajaan», entità riconosciute perfino dalla lunga occupazione militare indonesiana. Un tempo quella parola significava reame, poi gruppo, adesso possedimento. Per chi vive, o si rifugia, o si nasconde sulle alture oggi questo significa sottoporsi al potere del gruppo etnico che le occupa e può accettare o eliminare gli intrusi. Per le migliaia di profughi che ancora si nascondono nella giungla per sfuggire agli «Aitarak», e le centinaia di guerriglieri «Aitarak» che vi si rintanano per evitare le Nazioni Unite, la mappa delle colline è dunque una mappa di gruppi etnici più o meno «amici», più o meno vicini agli indipendentisti oppure legati agli uomini di Giakarta da un gioco di armi, rifornimenti, aiuti. E' per questo che trenta, forse quarantamila rifugiati si erano ammassati fino all'altro ieri nelle piantagioni di caffè di Dale, villaggio a meno di dieci chilometri dalla capitale, rischiando la fame ma non la morte violenta. In quella zona il gruppo etnico ha espresso alcuni leader del «Farintil», la formazione indipendestista armata. Percorrere quei dieci chilometri di strada in salita per qualunque avversario equivarrebbe ad un suicidio. Molto, molto più complessa è la situazione nei luoghi in cui si è compiuta la strage dei religiosi. Il pullmino percorreva la strada fra Baucau e Lospalos, una pista dall'andamento tormentato che fra impennate e discese vertiginose passa accanto a una vetta il cui nome spiega tutto: si chiama «Mundo Perdido», mondo perduto. I rifugiati che ancora si ammassano all'interno sulle montagne del Laklubar in quella regione sono fianco a fianco coi massacratori a loro volta infrattati nelle macchie, e nella rete di cunicoli e grotte lasciata dai giapponesi dopo la Seconda guerra mondiale. Su quella strada dieci metri in più o in meno possono significare l'incontro con chi ha bisogno, con l'alleato indipendentista o con la banda pronta a massacrarti. E questa geografia a macchia di leopardo - a macchie di sangue si riproduce lungo tutta l'isola, non appena ci si allontana da coste che pure sono bel lontane dall'essere sicure. Le prime informazioni dicono che il «popolo delle montagne», nel senso dei rifugiati, è ammassato nelle province montane di Aileu, di Vikeke, di Lautem, Sanie ed Bobonaro. Luoghi che in tempi normali sono raggiungibili solo dopo sei, sette ore di guida lungo strade ritorte, attraverso una vegetazione fittissima interrotta solo da piccole risaie, fra popolazioni e villaggi che negli ultimi dieci secoli non sono cambiati. Li qualsiasi donna indossa il «sarong» e ogni contadino porta il «machete». Se ciò che si sente dire è vero (e dovrebbe esserlo,visto che non si trovano altre spiegazioni) in ciascuno di questi dipartimenti l'esilio dei senzatetto viene prolungato a forza dalle unità guerrigliere degli «Aitarak» (e forse anche da quelle del «Farintil»). Non si capisce altrimenti perché tutti questi profughi non siano tornati a casa, o almeno non abbiano iniziato un vero controesodo. Tenerli ammassati nelle giungle per la guerriglia significa attirare il Caschi blu sul proprio terreno. Proprio ieri, a Timor Ovest, il capobanda Eurico Gutierres ha lanciato una sortii di ultimatum: «Diamo tre mesi all'Orni per vedere se i suoi soldati sono davvero imparziali...». Qualcuno gli ha chiesto: e poi? La risposta è stata tracotante ma non priva di logica: «Dopo attaccheremo. Loro hanno i carri armati, ma coi carri non si entra nella giungla...». Intanto il cibo e i medicinali che continuano a essere paracadutati finiscono nelle inani di chi si muove per primo, delle bande più organizzate. Degli «Aitarak». Con questa disordinata e tardiva «azione umanitaria» le Nazioni Unite finiscono col rifornire proprio la gente che combatterà i propri soldati. Oltre che fra vittime, carnefici e guerriglieri di fazioni opposte, chiunque tenterà di mettere ordine in questa terra selvaggia dovrà muoversi fra Ator.i e Meto Dawan, Roti, Tetum- Belu, Helong, Bunak, Bugis, Gruppi etnici ciascuno padrone di un territorio, di un destino e di alleanze che è difficilissimo decifrare. Dalle montagne del Belu, a cavallo fra Est ed Ovest, gli «Aitarak» continuano ad amministrare una regione e a tessere contatti che procurano loro appoggi. «Queste sono esperienze che è difficile dimenticare - scrive nelle memorie di guerrigliero il tenente Campbell, che pure dai timoresi fu molto aiutato a respingere l'ultimo invasore. «Questo è un popolo tribale che conduce il gioco fra vita e morte con regole molto vicine al primitivismo. Il «lacliak timor», ovvero timorese cattivo, può solo mutilare e decapitare. Per questa gente lo straniero è anzitutto un nemico». Dili Bauca H Patos TIMOR EST] Le decine di migliaia di persone ruggite dai massacri prima dell'arrivo delle forze di pace vi sono ora trattenute dagli anti-indipendentisti

Persone citate: Belu, Eurico Gutierres, Mundo

Luoghi citati: Giakarta, Timor Est