«A Palermo la partita non è chiusa» di Francesco La Licata

«A Palermo la partita non è chiusa» Dal 12 ottobre la corte entrerà in camera di consiglio: è il secondo giudizio per Andreotti «A Palermo la partita non è chiusa» Innovi scenari dopo la sentenza di Perugia Francesco La Licata inviato a palermo La sentenza di Perugia - violenta come il vento di scirocco sombra aver messo in moto una sorta di conto alla rovescia in vista della conclusione dell'altro processo, quello che, nell'immaginario collettivo, dovrebbe rappresentare una sorta di «redde rationem» soprattutto nei confronti di Giancarlo Caselli. E' cominciata, qui nella città dove «Belzebù-Andreotti» avrebbe mischiato il sacro e il profano arrivando a scambiare effusioni con il padrino Totò Riina, la lunga attesa che dovrebbe concludersi nella seconda metà di ottobre, quando il Tribunale presieduto da Francesco Ingargiola dovrà stabilire se Giulio Andreotti è quello dipinto dai pubblici ministeri, cioè una specie di genio del male che è riuscito a trasferire Cosa Nostra al servizio della sua corrente politica. Inutile aggiungere che l'evento prossimo si è caricato di significati ed aspettative che travalicano il pur rilevante interesso dell'onore personale dell'ex presidente del Consiglio. Un tam-tam ininterrotto passa da corridoio in corridoio per insinuare il gioco crudele del «totosentenza». In questa particolare specie di passatempo, abbastanza diffuso in una città che all'epoca della guerra di malia teneva diligentemente il conto dei morti senza un sussulto di sdegno, convergono ovviamente sentimenti diversi e contrapposti. E le domande su «come andrà a finire» possono essere autenticamente tribolanti oppure perfidamente dettate da odii, gelosie e mai sopite avversioni tra compagni di lavoro. Vale per i magistrati, forse più che per altri, il cinico detto che «la colleganza è odio militante». E perciò c'è chi - sulla spinta del «ghibli» proveniente da Perugia - sogna rivincite su quei magistrati che da anni «stanno in vetrina». Già, ma il problema - al di là delle miserie umane - rimane tutto. Che ne sarà del processo di Palermo? Perugia avrà una ricaduta? Al Palazzo di Giustizia nessuno, com'è comprensibile, apro bocca. Sarebbe persino ingeneroso chiedere commenti a quei magistrati che, dopo sei anni, si accingono a concludere un lavoro nel quale continuano a credere, seppure rosi dal dubbio di aver tentato di rispondere con «una utopia» alla domanda se «è possibile processare il potere». Col clima attuale, con la «gestione» già avviata della sentenza di Perugia, che ha finito per segnalare pochi inappuntabili come lo stesso Andreotti, nel pieno di furibonde disquisizioni non sempre pertinenti e puntuali «dichiarare anche soltanto le proprie generali¬ tà equivarrebbe ad esporsi alla lapidazione». Cosa avverrà dopo il 12 ottobre, giorno in cui il Tribunale entrerà in camera di consiglio? Sarà un riflesso condizionato a decidere? Non è detto, azzardano i più ottimisti. Una prima considerazione riguarda la sentenza di venerdì sera. E' vero che i pentiti non sono stati creduti. Ma mentre per quelli della Magliana, specialmente per Fabiola Moretti, la Corte ha fatto intendere - chiedendo l'invio degli atti al pubblico ministero - di esser convinta della loro malafede, per gli altri si è trattato di una «impossibilità» di verificare le loro dichiarazioni. Cosi è stato per Buscetta che, nella qualità di testimone e non di collaboratore, ha raccontato qualcosa che gli era stato riferito da altri e non gli costava personalmente, cioè il nesso tra l'omicidio Pecorelli e il presunto mandato partito da Andreotti. Il processo di Palermo, inoltre, non è sostenuto dalle semplici dichiarazioni dei pentiti. Vi si trovano dichiarazioni ed accuse di semplici testimoni, in qualche caso politici che, a proposito dei comportamenti della corrente andreoltiana, dello stesso senatore, a proposito della sempre negata conoscenza coi cugini Salvo, hanno concorso a comporre un quadro che i pm considerano sufficiente a sostenere l'accusa di collusione con la mafia. Per quel che riguarda i famigerati presunti «incontri» fra Andreotti e i boss mafiosi, c'è chi fa notare come siano stati trovati - anche se spesso in modo indiretto - indizi attraverso una montagna di ricerche. Il bacio? Certo, non esiste la foto di Riina che abbraccio l'ex presidente del Consiglio. Ma - è stato più volte detto in aula - il racconto di Baldùccio Di Maggio ha trovato riscontri da altre testimonianze, comprese quelle di Emanuele e Giovanni Brusca, che hanno ammesso di aver saputo dal padre detenuto, il vecchio Bernardo, che Riina si era incontrato con Andreotti. Insomma, non tutti sono convinti che la partita sia chiusa. E si rifiuta l'idea che l'inattendibilità dei pentiti possa essere accettata quasi come «consequenzialità logica». In sostanza, il fatto che Andreotti non abbia fatto uccidere Pecorelli non dimostrerebbe che non sia stato colluso con la mafia. Sull'omicidio persino i magistrati palermitani mostrarono perplessità e le trasmisero ai colleghi di Perugia. Ma da questo ad azzerare tutto... Adesso c'è chi ricorda che «nel 1978 alcuni pentiti e risultati investigativi sostenevano la lesi che Michele Reina, segretario provinciale della de, fosse stato ucciso dalla mafia che intendeva fare un favore a Vito Ciancimino. Nonostante ciò, Ciancimino non è stato mai accusato formalmente dell'assassinio perchè sarebbe stato difficilissimo sostenere tale accusa in giudizio. Venne condannato per mafia ed illeciti amministrativi». Il fatto che il senatore non abbia fatto uccidere Pecorelli non dimostra che non sia stato colluso con Cosa Nostra Il processo non è sostenuto dalle semplici dichiarazioni dei pentiti. Il racconto di Di Maggio trova altri riscontri In alto il senatora Andreotti in aula a Palermo Sotto. Giancarlo Caselli ex procuratore di Palermo In basso Francesco Ingargiola, presidente del tribunale ■ -ivV-i. ■-. ...

Luoghi citati: Palermo, Perugia