Il ritorno delle virtù andreottiane di Filippo Ceccarelli
Il ritorno delle virtù andreottiane L'EX MINISTRO DC «LA POLITICA SI STA RIMETTENDO IN MOTO, E SI VENDICHERÀ' DI CHI L'HA OFFESA» Il ritorno delle virtù andreottiane Pomicino: ilpotere? Lui lo gestiva con parsimonia intervistò Filippo Ceccarelli ROMA Ni ION possiamo non dirci I andreottiani» esplode PaoI lo Cirino Pomicino, 18 proscioglimenti su 21 processi (uno anche per associazione camorrista) al termine di una specie di seduta psico-politica densa di ricordi, suggestioni, amici, nemici. E il giorno dopo l'«assoluzione di massa dell'intero elettorato democristiano, l'ex ministro» sogna quasi la nascita, o forse prefigura la rinascita di qualcosa che, al di là delle fumisterie del centro o delle ricorrenti nostalgie democristiane, assomiglia molto da vicino a un partito andreottiano. Premette: «La politica sta lentamente rimettendosi in moto e si vendicherà di chi l'ha offesa» - dice - vedrete fra qualche mese...». Si ritiene «un sismologo» e come tale prevede terremoti. Ma intanto accetta di fare l'appello dei martiri, dei feriti, dei dispersi dei combattenti e reduci dell'andreottismo devastato e ora... E ora, appunto? A parte Andreotti, cosa resta dell'andreottismo, degli andreottiani? «All'apparenza restano tante collocazioni innaturali. Finora è prevalso un autentico nanismo politico, piccole convenienze. Ma ho il sospetto che stia per finire la ricreazione». Vediamo, se non le dispiace, caso per caso. Publio Fiorista con Ari... «Ma lì sta male: Alleanza nazionale ha preso una piega radicale, referendaria». La Fumagalli, invece, sta con il centrosinistra «Ma anche lei sta male con Rinnovamento, che non esiste, non c'è. La politica si è miniaturizzata, è piena di bancarelle organizzative». E Bonsignore? «E' nell'area di Forza Italia, ma sta tornando». Nino Cristo!ori invece è nei popolari. «Pure lui è in marcia». Il calabrese Pujia? «Sta con Sergio Berlinguer nel Mid, insieme, sembrano un po' Gianni e Pinotto o i fratelli De Rege, ma ci vediamo, ci sentiamo, siamo amici affettuosi. Quel che intendo è che ciascuno di noi riacquisti una collocazione più naturale e funzionale». Anche Formigoni era considerato andreottiano «Mi pare che stia definitivamente in Forza Italia». E Luca Danese? «Udeur. Ha fatto il capolista alle europee, ha preso non ricordo se lo 0,3 o lo 0,4 per cento». E il catanese Nino Drago? «Credo che sia morto». Ah. Beh, insomma, non è che proprio... Quanto contava la corrente al suo massimo storico? «Nel 1991 arrivammo fino al 20 per cento. Eravamo la terza componente interna. Affittammo una sede a via Condotti, l'anno prima avevamo organizzato un convegno. Fu il primo e l'ultimo. Venne De Benedetti che si slanciò in lodi sperticate. C'era anche il presidente della Confindustria Pininfarina. Ma Andreotti non venne». Era una corrente un po' strana «Eh sì. Fino alla metà degli Anni Settanta gli andreottiani erano lui e i romani. Prima dei congressi il povero Evangelisti rimediava un po' di voti e portava la gente a mangiare a Frascati. Gli altri organizzavano convegni. Poi arrivarono i siciliani e noi campani, con aspirazioni diverse. Andreotti pensava ad altro». A che pensava? «I punti forti di riferimento dell'andreottismo erano sempre stati esterni al partito: la Chiesa e l'America. Se queste entità cambiavano atteggiamento e linea, non sempre Andreotti li seguiva, per cui appariva di volta in volta o l'amico più fedele o quello meno fedele. Lui stava al governo, comunque, e faceva la grande politica». I collaboratori però se li teneva stretti. E francamente sembravano uno peggio dell'altro. «Ripeto, lui dal punto di vista correntizio era una specie di dottor Strana more. La bassa cucina la lasciava alla gente di cucina. Prima delle riunioni, Evangelisti ci diceva: "Mi raccomando, non parlate"». Eppure, un potere andreottiano c'è stato. «Certo, ma più che altro a livello simbolico. Lui lo gestiva in modo parsimonioso. Quando arrivammo al governo, per dire, il governatore della Banca d'Italia era pronto ad andarsene. Ciampi non era vicino alle nostre posizioni, tutt'altro». Il direttore generale Dini sì «Dini sì, era vicino. Per questo si pensava che presto sarebbe diventato lui governatore. Quando nel 1989 io e Formica prendemmo una certa posizione, in certi circoli questa fu vista come l'avvisaglia del cambio imminente». E allora? «Allora niente. Andreotti non ci pensava, non ci ha mai pensato. Anche negli enti...». Negli enti, all'Iri, avevate Nobili, che era andreottia- nissimo. «Sì, tanto che lasciò tutti gli uomini di Prodi, e fece bene. Oltre a esserci arrivato per caso». Insomma, il potere di Andreotti era una specie di illusione ottica. «Un momento. Non era mica una mammola. Ma del potere aveva una concezione minimalista, davanti alle tensioni cercava di spezzettarle. Niente spoilsystem. Ci accusavano di pragmatismo. Ma i valori senza pragmatismo, rispondeva lui, sono predicazione velleitaria. In realtà in questo era del tutto speculare a Moro». Un altro andreottiano attento ai valori era Peppino Ciarrapico. «Ma Ciarrapico, oltre a essere un amico personale, era rappresentativo di quella borghesia romana di destra che da sempre si riconosceva nell'andreottismo». Comunque fu lui a curare la questione della Mondadori «Ma guardi che Ciarrapico non ebbe mai l'incarico di interessarsene. Era molto attivo, conosceva tutti. Tutti pensavano che avesse Andreotti alle spalle. Lo pensava anche Berlusconi. Ma Andreotti non lo sapeva neanche. Faceva quello che gli pareva, in genere quello che meno la gente si aspettava da lui. I siciliani, per dire, portavano in dote 280 mila voti; io ne portavo meno, 240 mila. Ma il ministro l'ho fatto io». Poi c'era Sbardella, con cui lei non andava notoriamente d'accordo. «Sbardella arrivò tardi sullo nostre sponde. Era un doroteo petrucciano. Poi cominciò ad avvicinarsi a De Mita e al Pei». Aveva dietro i cattolici del Movimento popolare «E aveva dietro la Compagnia delle Opere. Fece l'accordo con Lima. In verità voleva coordinare la corrente, ma nessuno voleva essere coordinato da lui. Né Fiori, né noi campani, né i torinesi di Bonsignore, né Baruffi e i lombardi, né i toscani di Bisagnooi pugliesi di Mattarrese e Caroli». Ci fu un momento in cui i due spezzoni andreottiani organizzarono due diverse feste, a distanza di giorni, per festeggiare Andreotti. Fu bizzarro. «Noi non eravamo festaioli. A casa mia si faceva politica, non feste. Era più che altro l'ambiente romano. E comunque rispetto a questo Andreotti veleggiava a 100 chilometri di distanza. Era attratto dalla politica estera, andava in Yemen in missione diplomatica segreta; oppure negoziava l'euro con la Thatcher. Ricordo nel 1990, semestre italiano, all'ultimo momento nel comunicato ufficiale cambiò l'espressione concordata, che era "moneta comune", in "moneta unica". Il presidente belga lo stava per interrompere, lui lo gelò con la mano e con gli occhi. Questa era la cifra e la misura dell'andreottismo. Altro che corrente. A quella pensava lei. «In effetti, lui aveva questa specie di furbizia, che poi non era neanche una furbizia, di non interessarsene per non essere coinvolto nelle beghe, lo gli ho sempre contestato questo atteggiamento. Una volta deve essersi anche seccato. "Stai forse dicendo che io sono uno str..."»? E lei come reagì? «Gli risposi: "Veramente, questo l'ha detto lei, presidente". Ad Aldo Moro e Amintore Fanfani davo del tu. Solo a Giulio Andreotti ho sempre dato e continuo a dare del lei». «Gli amici di un tempo sono sparsi in collocazioni innaturali, ma ora potrebbe finire la ricreazione...» Nella foto grande a sinistra Paolo Cirino Pomicino Qui accanto Margaret Thatcher e, al centro, Vito Bonsignore
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