Buscetta, la sconfitta del grande accusatore di Francesco La Licata

Buscetta, la sconfitta del grande accusatore i DUE AMICI-NEMICI E LE VERITÀ' DI UN PROCESSO Buscetta, la sconfitta del grande accusatore Don Masino e Badalamenti: opposto declino di due mafiosi retroscena D Francesco La Licata a qualunque bandolo lo si afferri, il processo per l'assassinio di Mino Pecorelli mota attorno a due personaggi siciliani, mafiosi, uguali e opposti - che rappresentano (ognuno per la propria parte, ovviamente) elementi della stessa cellula che ha generato le accuse a Giulio Andreotti. Sono Tommaso Buscetta e Gaetano Badalamenti: due mafiosi della vecchia generazione nati e cresciuti alla stessa scuola e via via allontanatisi, compiendo scelte diverse di fronte alla necessità di salvarsi dalla «deregulation» ordita da Totò Riina e dalla sua banda corleonese. Buscetta - il grande sconfitto della sentenza di Perugia - oggi è collaboratore di giustizia, sta negli Stati Uniti, è ammalato e spera di poter arrivare alla fine restando vicino all'affetto della moglie e dei figli. Anche Badalamenti sta negli Usa, ma in un carcere dove sconta una condanna per traffico di droga. Non ha mai ceduto alle sirene del pentitismo. Forse è stato attraversato dal «cattivo pensiero» di tentare la carta di una dissociazione dai metodi della Cosa Nostra corleonese. Non gli è riuscito, però, il «colpaccio» di guadagnare il ritorno in Italia, pagando un prezzo troppo basso. Un patto del genere non è stato possibile. E così don Tano, «Battagghiu», resta in cella sognando il suo paese, Cinisi, e la remota possibilità di venire a morire in Italia. Alla lunga, però, la sua strategia, la strategia di non muoversi aspettando tempi migliori, la strategia del silenzio, la strategia di «la meglio parola è quella che non si dice», ha avuto la meglio. Un declino comune, quello dei due mafiosi, eppure tanto diverso. Don Masino, rassegnato al molo di boss sprelato, che con la collaborazione e con le accuse al mondo politico si è costruito la corazza per cercare di recuperare anche l'onore perduto. Don Tano, che è rimasto prigioniero della sua mafiosità, respingendo il molo di «infame», ma non senza lanciare messaggi di possibile patteggiamento. E così Buscetta ha interpretato la parte del grande accusatore, oggi irrimediabilmente sconfitto: « Pecorelli è stato ucciso dalla mafia per fare un favore al senatore Andreotti". Me lo disse Bontade: "Quell'omicidio lo abbiamo fatto noi", e me lo confermò Badalamenti, aggiungendo che si trattava di politica e di l'atti collegati al sequestro di Aldo Moro». Stefano Bontade è morto e non può testimoniare. Chi avrebbe potuto dire una parola, forse definitiva, è lui, Badalamenti. Che, invece, ha preferito le mezze frasi, i messaggi cifrati, e persino le interviste propiziate dalla mediazione di personaggi discussi. Sembrano distanti e invece sono simili, i due amici-nemici. Buscetta all'inizio della sua collaborazione cercò addirittura di lasciare fuori don Tano. E, forse per questo, il vecchio boss di Cinisi ha respinto le accuse di «Masino». Ma quasi con garbo. Non c'è mai stata avversione vera tra i due. Anzi, nelle varie fasi dei tentativi di «convincere» Badalamenti a testimoniare, gli investigatori hanno intravisto una certa volontà del capomafia di «non smentire» l'ex amico, ma sempre prestando molta attenzione a non cadere nella «trappola» del pentitismo. Fino a lasciarsi sfuggire, in una intervista, un aggettivo per Totò Riina: «Belva», lo stesso usato da Buscetta. C'è stato un momento in cui Badalamenti non negò le rivelazioni di don Masino a proposito del rapporto tra il capomafia di Cinisi e i cugini Nino e Ignazio Salvo, grandi elettori della corrente di Andreotti. Alle domande su Salvo Lima e sul senatore, se cioè li conoscesse, ha sempre risposto un po' più criptico: «Le amicizie politiche non hanno grande importanza». Raccontò come Nino Salvo fosse andato a trovarlo al soggiorno obbligato per chiedergli di intervenire nella vicenda del sequestro di cui era rimasto vittima il suocero, Luigi Corico. «Voleva che gli facessi ritrovare almeno le ossa del suocero», verbalizzerà don Tano al maresciallo Lombardo, il cara- biniere poi morto suicida dopo essere stato esautorato dalla missione americana di riportare in Italia Badalamenti. Un altro groviglio niente male il suicidio del sottufficiale. In quella occasione, da perfetto mafioso, Badalamenti sottolineò che il contatto con Nino Salvo era avvenuto sotto gli occhi dei carabinieri, e che l'idea di coinvolgere il boss nelle ricerche del sequestrato era stata del colonnello dell'Anna, Giuseppe Russo, lo stesso che sarebbe poi stato ucciso a Ficuzza all'inizio della guerra di mafia. Quale sapiente maestria, nel far risultare a verbale - come si trattasse di normale prassi - le innaturali frequentazioni tra mafiosi, potenti, politici e «sbirri». C'è, in questa sceneggiatura, tutta la secolare esperienza del boss navigato, tutta la tradizionale ambiguità di una convivenza tra guardie e ladri che in Sicilia è andata avanti sotto lo sguardo benevolo di tutti. Per questo Badalamenti è considerato in gran parte della vicenda che ha coinvolto il sen. Andreotti e il sen. Vitalone. Don Tano viene da lontano, la sua famiglia rappresenta la «nobiltà» di Cosa Nostra, i parenti sono in Italia e negli Usa. Già, «gli americani» che tornano nell'evoluzione dell'indagine su Andreotti e tornano nel «rammarico» più volte espresso dal senatore nei confronti di mai nominati presunti nemici. Don Tano, come Buscetta, ha preferito «nascondersi» negli States. Già, ci si può nascondere anche stando in carcere. Ora che le cose sono un po' cambiate, ora che i corleonesi sono alle corde, solo ora Badalamenti esterna esplicitamente il desiderio di preferire il carcere italiano a quello degli Stati Uniti. E c'è stato un momento, non tanto tempo fa, che la moglie è andata a riaprire la casa madre, nel corso principale di Cinisi. Chissà, dopo l'assoluzione di Perugia non tutte le speranze sono perdute. Il superpentito aveva detto: «Pecorelli è stato ucciso da Cosa Nostra per fare un favore a Andreotti» II vecchio boss ha preferito le mezze frasi, i messaggi cifrati, senza mai smentire l'ex amico Don Tano è stato rispettoso del detto: «La meglio parola è quella che non si dice». E' in carcere negli Stati Uniti Buscetta sembra rassegnato al ruolo di boss «spretato» che con la collaborazione si è costruito una corazza Tommaso Buscetta, a destra, e Gaetano Badalamenti, mafiosi della vecchia generazione Stefano Bontade, boss ucciso nel 1981