La spettacolare beatificazione di Belzebù

La spettacolare beatificazione di Belzebù "ìNITA' Di UN IMPUTATO ED IL GRANDE ENIGMA DEL POTERE La spettacolare beatificazione di Belzebù L'attesa della sentenza conversando di Tota, Nazionale e della Magnani personaggio Filippo Ceccarelll FENOMENO Andreotti. Procede a passettini sotto le luci abbaglianti dal fondo del cortile di Palazzo Giustiniani. Una figurina grigia, lieve, indifferente al mucchio selvaggio di macchine e di uomini che l'attendono. Quando si ferma non c'è nulla e nessuno che lo tocchi. Spalanca gli occhi e apre lentamente la bocca a salvadanaio, intreccia le dita bianche, lunghissime, e bisbiglia qualcosa offrendo a quel groviglio informe di mirrcfoni, capelli, odóri, cavi, obieitivi e spallate un saggio di garbo e di disponibilità. Dice: «Non basta avere ragione, bisogna truvare chi te ladà». Può una creatura del genere commissionare assassini' Può un essere che si definisc i amabilmente «un burocrate» aver fatto accoppare Pecorelli? Mezz'ora prima la notizr» dell'assoluzione è rimbalzata fuori attraverso un commesso del Senato che, raggiante, l'ha consegnata a un agente di Ps. Si sono subito accese le luci. La reputazione del Palazzo era salva. Non è stato, appunto, un delitto di potere. E chissà se mai si saprà che cosa è stato. Fuori del portone di Palazzo Giustiniani, fino a quel momento, un placido pomeriggio di settembre a Roma: le carrozzelle, l'afa, gli stranieri, un gigantesco alano bruno che ha scaricato platealmente i suoi bisogni davanti alla prima sede (provvisoria) della Presidenza della Repubblica, quella residenza buia che De Nicola chiamava acidamente «la tomba». L'assenza del dramma, in fondo, è da sempre un'entità tipicamente andreottiana. Il potere vero, quello che bene o male lui ha incarnato per mezzo secolo, non ha bisogno di grida, lacrime e nervosismi. Ma di sicurezza, altrimenti detta anche se suona sempre un po' retorico - serenità. Sereno, comunque, Andreotti lo era sul serio. Ai limiti del temerario. Ben prima della sentenza aveva accettato - «qualunque cosa accada» - di partecipare domani sera, ore 21, Rai due, alla prima puntata del programma di Piero Chiambretti, che neanche a farlo apposta si intitola "Fenomeni". Appuntamento allo storico teatro Valle, dove il piccolo Giulio esordì in una recita: vestito da fiore. Inutile dirlo: l'idea di presentare in tv un ergastolano era rischiosetta. Tanto più che Chiambretti avrebbe dovuto coniugarlo con Romina Power, Giampiero Mughini, una soubrette svedese, una maga nera esperta di campanelli e Aldo Busi. Un serraglio, un baraccone, un carrozzone, nel senso più televisivo possibile. E tuttavia accettare l'eventuale condannato (per assassinio) sembrava al tempo stesso una fortuna e una sciagura. Ma Andreotti aveva accettato al buio. Dunque, c'era anche questa supplementare ordalia televisiva, nella sua lunga attesa. In molti, onestamente, avrebbero indietreggiato di fronte all'eventualità di trovarsi sul palcoscenico con una condanna sul groppone, o gobba che sia, magari a fianco alla maga dei campanelli. E tuttavia, senza alcuna certezza sul verdetto di Perugia, in realtà, Andreotti si era prenotato una plausibile beatificazione spettacolare. Forse era una straordinaria fiducia in se stesso. Per molti, moltissimi Andreotti era innocente da un bel po' di tempo. Per certi versi si può anche dire che, una volta escluso dal governo, era addirittura migliorato. Faceva quasi tenerezza. Oppure serviva. Parecchi ministri, per dire, l'avevano consultato ai tempi della guerra del Kosovo. Andreotti si era schierato sul fronte pacifista, insieme con Pietro Ingrao, ma i suoi erano comunque suggerimenti preziosi. «I consigli dello speziale» li chiamava lui, giacché dopo tutto i principi della politica, spiegava, sono universali e valgono per sempre. Anche con il colonnello Gheddafi, d'altra parte, aveva avuto ragione lui. E perfino sui referendum anti-proporzionali - lui che la legge proporzionale l'avrebbe messa dentro lo scudo crociato al posto del motto "Libertas" - con eleganza ne aveva sostenuto la legittimità. Strano destino, davvero. Imputato di omicidio e contemporaneamento e volonterosamente coinvolto, ogni anno, nella stesura di una ventina di tesi di laurea. E un libro e mezzo all'anno, anche per pagare gli avvocati (a proposito: bravissimi). E gli studi ciceroniani. E le rivelazioni biennali sul caso Moro. E gli auguri di compleanno, con il Gotha dell'industria e dell'editoria, nel Villino Giulia di Maria Angiolillo. E le preghiere e la lettera personale del Papa. E le acclamazioni al Meeting riminese di Comunione e liberazione... Sulla sua rivista, «Trentagiorni», aveva pure trovato il modo, Andreotti, di attaccare certi lavori giubilali, un certo parcheggio che andava a devast are un luogo in cui furono martirizzati tanti cristiani, ai tempi di Nerone. A un assassino, in fin dei conti, non si ricordava il rito officiato 34 anni fa, sul lago Maggiore, quando in suo onore venne piantata una sequoia. Né si chiede, di solito, se va o non va a letto, la sera, con la borsa dell'acqua calda; o quando abbia cominciato a frequentare gli ippodromi. La condanna sembrava lontana, certo. Quando in primavera il Pm aveva chiesto l'ergastolo, Andreotti aveva commentato amarognolo: «Beh, meno male che non la pena di morte...». Ora lo aspetta «Fenomeni». Chiambretti, Busi e La maga dei campanelli. Sembra di essere tornati indietro di dieci anni. Per questo, ieri mattina, mentre i giurati erano ancora riuniti in camera di consiglio, aveva ricevuto a Palazzo Giustiniani i tre cervelli organizzativi della trasmissione, Tiberio Fusco, Tatti Sanguineti e Carla Vistarini. Non solo, ma li aveva accolti pimpante e divertito. Il suo telefonino squillava di continuo, con la musichetta dell'inno alla gioia. Insomma: i giurati, a Peru¬ gia, stavano decidendo su quale trattamento assegnargli nei libri di storia e lui conversava di cinema, di Totò e di padre ('■alletto, del suo amico Italo Gemini che lo invitava alle proiezioni nei sotterranei dell'hotel Nazionale (dovre avrebbero voluto acciuffarlo le Br), della Magnani (di cui era gelosa la signora Andreotti), di Suor Pascalina e finanche del concetto evolutivo di osceno: «Siamo partiti dalla caviglia della Duse e siamo arrivati alla Tac». Può un uomo cosi - così piacevole, cosi curioso, così ricco di ricordi sfiziosi - far del male a qualcuno? E ancora una volta aleggiava su quei discorsi il grande enigma andreottiano di Belzebù. A un certo punto ci fu addirittura un accenno a una camera di consiglio. Imperturbabile, come se si stesse parlando di una cosa remota, seppur interessante, Andreotti apprese che nel film «Anni facili», di Zampa, Sceiba volle tagliare a tutti i costi una scena - peraltro scritta da Vitaliano Brancati - in cui alcuni giurati, riuniti per decidere, finivano per parlare dei fatti loro, del caldo, della malattia di un bimbo, dell'orario del treno... Magari sarà successo anche a Perugia. Magari non si rendevano neanche più tanto conto, i giurati, che slavano per decidere qualcosa di più rilevante dell'innocenza o della colpevolezza di un uomo come tanti. Perché in realtà, prima ancora di Giulio Andreotti, hanno assolto il potere. Un potere che non commette delitti, che non fa uccidere i giornalisti. E anche per questo rivendica davanti alla legge alla storia una sua postuma legittimità.

Luoghi citati: Kosovo, Perugia, Roma