Da Op alle carte di Moro in un giallo all'Italiana

Da Op alle carte di Moro in un giallo all'Italiana TUTTI JJIBU5 DI UN OMICIDIO ECCELLENTE - Da Op alle carte di Moro in un giallo all'Italiana retroscena aUANDO gli spararono quattro colpi di pistola - la sera del 20 marzo 1979 in via Tacito a Roma, nel cuore di Prati, quartiere di palazzi umbertini e studi di avvocati com'era anche lui, Mino Pecorelli, che solo dopo aveva preso la strada del giornalismo - pochi, pochissimi, forse nessuno pensò alla malia. Eppure in quell'anno che segnò la fine dell unità nazionale targata Andreotti, Cosa Nostra s'era già mossa parecchio, e parecchio si sarebbe mossa. A Palermo, a gennaio era stato ucciso il giornalista Mario Francese e il 24 marzo il segretario provinciale della de, l'andreottiano Michele Reina. A luglio, a Milano cadde Ambrosoli e, ancora a Palermo, il capo della Mobile Boris Giuliano, Ad agosto ricomparve in Sicilia Michele Sindone, ospite del boss Stefano Bontade, e a settembre uccisero il giudice Cesare Terranova. Questo era il clima, mentre a Roma un giudice noto per le sue simpatie di destra metteva sotto inchiesta i vertici della Banca d'Italia, arrestando il direttore generale, e in tutto il Paese seminavano morti per le strade o negli androni dei palazzi, quasi sempre di prima mattina. Mino Pecorelli, direttore della rivista O.P.. fu invece ammazzato di sera, al termine della solita giornata di lavoro. Molti anni dopo hi storia della sua morte si sarebbe intrecciata proprio con la mafia e con le Brigato rosse, ma quella sera no, non era affatto chiaro. Prima di spegnere la luce e chiudere la porta dello studio per l'ultima volta, Pecorelli aveva confidato alla segretaria che forse l'eterno problema dei soldi si sarebbe presto risolto. E quel rotocalco povero sul quale scriveva articoli e lanciava messaggi sarebbe potuto andare avanti ancora un po'. Invece si fermò tutto pochi minuti dopo, con quattro colpi di pistola che lo sorpresero a bordo della sua Citroen. Cominciò subito la solita indagine diretta dal solito pm dei casi eccellenti, Domenico Sica, che non approdò a nulla. Scavò nel sottobosco politico romano e nel mondo dei Servizi segreti, il dottor Sica, che quelli frequentava e stuzzicava Pecorelli, ma inutilmente. Qualche anno dopo ci provò un altro pm romano, Giovanni Salvi, a trovare gli assassini del giornalista: un paio di pentiti del terrorismo nero avevano detto che a freddare Pecorelli erano stati due di loro, Valerio Fioravanti e Massimo Carminati, capo e soldato dei Nuclei armati rivoluzionari. Per conto di chi? Di Licio Celli, era l'ipotesi, il Gran Maestro di quella Loggia P2 alla quale il giornalista s'era iscritto il 1 " gennaio del '79, tessera 1750: negli ultimi mesi della sua vita - notarono gli inquirenti - obiettivo degli attacchi giornalistici di Pecorelli (e forse di qualche ricatto solo accennato negli articoli) «era essenzialmente Licio Gelli e la struttura di potere che intorno a questi s'era coagulata». Ma nel 1991, anche un magistrato esperto di trame e poteri occulti come Salvi si arrese. Era partito dicendo che per trovare un movente dell'omicidio c'era solo l'imbarazzo della scelta: «Semmai è proprio la vastità e la quantità degli interessi lesi dagli articoli di Pecorelli che può costituire un serio ostacolo all'individuazione del mandante dell'omicidio». In conclusione, però, s'era dovuto arrendere: «Gli elementi raccolti a carico degli indagati sono di notevole spessore», scrisse, ma le prove per portarli davanti a una corte rfassise non erano sufficienti. Passò un altro anno e poco più, e sul tavolo del pm Salvi tornarono i faldoni con gli atti dell'inchiesta Pecorelli, rispolverati dall'archivio. Era successo infatti che il pentito numero uno della mafia, Tommaso Buscetta, dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio dove erano stati annientati Falcone e Borsellino, aveva deciso di vuotare il sacco sui rapporti tra la mafia e la politica; non quella locale, di Salvo Lima e dei cugini Salvo, ma quella che si faceva a Roma, nei palazzi che contano. Quella di Giulio Andreotti, svelò don Masino. Un nome che - finché ha potuto vivere - Mino Pecorelli aveva scritto spesso sulla sua rivista, e non certo per lusingarlo. C'era stata anche la storia di una famosa copertina di O.P. stampata ma mai pubblicata, con la foto dell'allora capo del governo e una scritta sotto: «Gli assegni del presidente». Raccontava di finanziamenti poco chiari passati per le mani di Andreotti, ed era finita negli atti dell'indagine sull'omicidio, senza risultati come tutto il resto. Nelle sue nuove dichiarazioni Buscetta raccontò che nel 1980 il boss mafioso Stefano Bontate gli aveva confidato che ad ammazzare quel giornalista romano di nome Pecorelli «era stata Cosa Nostra, più precisamente lui e Badalamenti, su richiesta dei cugini Salvo». E che tre anni dopo, in Brasile, proprio il boss Tano Badalamenti gli confermò la versione: «Quello di Pecorelli era stato un delitto politico voluto dai cugini Salvo, in quanto a loro richiesto dall'onorevole Andreotti... Sembra che Pecorelli stesse appurando "cose politiche" collegate al sequestro Moro». Era la svolta, condita da un'altra frase di Buscetta sul generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ammazzato a Palermo nel 1982, tre anni dopo Pecorelli: anche il generale conosceva i segreti del caso Moro che preoccupavano Andreotti, «Pecorelli e Dalla Chiesa sono "cose che si intrecciano fra loro"». Ecco dunque comparire sulla scena del delitto le due «entità» che nel '79 pochi o nessuno potevano immaginare, anche se erano così presenti nella cronaca di quell'Italia: la mafia e il caso Moro, gestito e portato a termine dalle Brigate rosse nella primavera del 1978, ma con tanti, troppi lati oscuri. Come s'era confermato nel 1990, quando in un vecchio covo brigatista di Milano, in via Monte Nevoso, scoperto nel 1978, l'operaio incaricato dei lavori di ristrutturazione rimase a bocca aperta: dietro un doppio muro, sotto la finestra, c'erano soldi, armi e le fotocopie di una nuova versione del memoriale Moro, più completa di quella trovata, sempre lì, dodici anni prima. Salvi cominciò l'indagine, lavorando anche su questo: guarda caso Pecorelli già nel '78, dopo la scoperta della base br, scriveva di un «doppio memoriale Moro». E guarda caso l'irruzione del '78 fu fatta dagli uomini del generale Dalla Chiesa. Lavorava su questo e sugli «assegni del presidente», il pm Salvi, quando un pentito della banda della Magliana - gang romana al servizio di molti - tirò in ballo il nome Claudio Vitalone, all'epoca del delitto magistrato a Roma, poi senatore e ministro de, andreottiano di provata fede. L'inchiesta dovette prendere la strada di Perugia, dov'è stata ricostruita la presunta catena dai mandanti agli esecutori - Andreotti, Vitalone, Badalamenti, Calò, La Barbera e Carminati, più una serie di personaggi che nel frattempo sono morti, quasi nessuno nel proprio letto -, col movente che rimane quello «multiplo» del secondo memoriale Moro (con gli apprezzamenti sui rapporti tra Andreotti e Sindona, per esempio) e degli «assegni del presidente», approdata fino al processo che s'è concluso ieri. Anche stavolta è finito tutto in fumo, con l'assoluzione. Per la giustizia italiana l'omicidio di Mino Pecorelli è rimasto «opera di ignoti». [gio. bia.] La sera del 20 marzo del 79 a Roma il direttore di Op fa ucciso con quattro colpi di pistola Alla segretaria disse: «Ho risolto i problemi finanziari» La prima indagine seguì la pista del sottobosco politico romano e dei Servizi segreti. La svolta con le dichiarazioni del superpentito Tommaso Buscetta