Addio a Valloni, con polemica

Addio a Valloni, con polemica Ciampi e D'Alema ai funerali di Stato. L'orazione di Albertini. Mancino: era lungimirante anche sui temi della sicurezza Addio a Valloni, con polemica Ipartigiani: non ci hanno lasciato parlare Fabio Potetti MILANO Ci sono cinque margherite bianche e quattro francobolli con il tricolore, appoggiati alla bara di Leo Valiani. Qualcuno si fa il segno della croce, una donna con una mano sul legno lucido legge un'antica preghiera ebraica. «Non gli sarebbe dispiaciuta», spiega lei, che ha sfidato la pioggia e lo Yom Kippur per accompagnare quello che con troppa retorica tutti sentono vicino, chiamandolo «padre della Patria». Quando alle 11 si apre la camera ardente dentro la sala Alessi di palazzo Marino, arrivano venti ex partigiani. Li guida l'ex sindaco Aldo Aniasi, il comandante Iso che si batteva a fianco di Valiani quando era alla testa di Giustizia e libertà. Passano la doppia fila di carabinieri in alta uniforme, le corone di Stato, i corazzieri in divisa che accompagnano il presidente della Repubblica Ciampi, i messi del Senato con il presidente Mancino, si fermano un attimo davanti alla bara e poi non si trattengono. «Abbiamo chiesto di poter tenere anche noi l'orazione funebre, ci hanno detto di no», spiega con amarezza il comandante Iso, ai margini della sala durante tutta le cerimonia, accanto agli ex partigiani con il fazzoletto al collo. Mario Borghi, presidente degli ex partigiani GL, l'amico da sempre di Valiani al quale è stata negata l'orazione funebre, è ancora più duro: «In questa Milano comandano loro, che idee abbiano lo sappiamo. C'è un vice sindaco fascista...». Dentro la sala, in prima fila, ci sono le autorità, c'è il presidente Ciampi che si inchina davanti alla bara, ci sono i banchieri come Enrico Cuccia, Luigi Lucchini e i vertici della Comit, gli imprenditori come Tronchetti Provera e i vertici di Assolombarda e poi i politici, tanti politici, seduti sulle poltrone rosse di fronte ai famigliari di Leo Valiani e dietro al sindaco Albertini con la fascia tricolore, il primo a parlare. «Leo Valiani era un italiano giusto», esordisce il sindaco e poi ricorda le battaglie contro il terrorismo, la corruzione e l'inflazione. «Non amava l'Italia dei furbi, sosteneva che lo Stato in democrazia doveva difendere la libertà di tutti», ricorda ancora, e sfiora appena il passato da partigiano di Valiani. Se non per dire: «Scrisse una dedica che non si può dimenticare, per altezza d'animo e modernità: "A Duccio Galimberti, per tutti i caduti della nostra parte e dell'altra"». Un discorso «offensivo», lo definisce l'ex sindaco Aniasi che lamenta il mancato riferimento alla Resistenza, all'antifascismo e alla guerra partigiana. In sala arriva Silvio Berlusconi. Stringe la mano prima ad Armando Cossutta poi al capo del pool Gerardo D'Ambrosio. «Mi sono messo dove mi ha detto il cerimoniale», spiega il Cavaliere, che ha un suo ricordo di Valiani: «Era un sacerdote della libertà e della democrazia». Quasi le stesse parole di Luciano Gasperini, presidente dei senatori della Lega di Bossi: «Era un combattente della libertà». Davanti a palazzo Marino sono in poco più di duecento, dietro alla transenne. Qualche turista passa veloce sotto alla pioggia e guarda appena quei centoventi militari in alta uniforme, con la banda dei carabinieri. Le parole di Giorgio La Malfa, rimbombano dagli altoparlanti nella piazza, a partire dal'apo- logia di Socrate - «Io vado a morire, voi a vivere. Ma chi va a miglior vita lo sa solo Dio» - fino al ricordo delle ultime parole di Valiani, apparse su Nuova antologia: «La giustizia sociale non deve restare una mera speranza». Uno dietro l'altro arrivano il presidente del Consiglio D'Alema «Ci ha dato l'impronta della nostra storia democratica. Questi uomini se ne vanno, e un dato della natura, l'importante è mantenere alti i loro valori» - il segretario dei Ds Veltroni, il presidente della Camera Violante, il ministro della Difesa Scognamiglio che si fa il segno della croce, l'ex sindaco Pillitteri, il procuratore generale Borrelli e Nicola Mancino, presidente del Senato, l'ultimo a prendere la parola. «Leo Valiani sentiva la necessità di avere istituzioni Ioni e autorevoli. La sua insistenza sui temi della sicurezza ad alcuni sembrava eccessiva, era lungimiranza», ricorda il presidente del Senato, che racconta poi le parole che più amava ripetere Valiani, quando lo definivano «padre della Costituzione»: «Non lo sono, io sono figlio della Patria». Arriva anche Giulio Andreotti, spiega la sua presenza come un«dovere». Ed è l'unico, ad avere una vena polemica, adesso che i giudici di Perugia stanno decidendo della sua sorte: «Valiani mi ha sempre onorato della sua amicizia, anche quando forse qualcuno la sentiva ma non lo diceva». E dopo i discorsi, gli applausi, le coroni! di fiori che entrano in piazza della Scala, dopo quei cento metri del presidente Ciampi a braccetto con la vedova di Valiani, Nidia, la militari intona l'inno Piave e il Silenzio che accompagnano il feretro fino al Famedio al Monumentale, dove la bara viena tumulata accanto a quella di Salvatore Quasimodo. fanfara dei nazionale, il Qui accanto il sindaco di Milano Gabriele Albertini il presidente del Consiglio D'Alema e il presidente del Senato Nicola Mancino Al centro il Presidente Ciampi con la vedova Valiani A destra, il sen. Andreotti e Veltroni Amaro commento degli ex combattenti di Giustizia e Libertà: «In questa Milano comandano loro, che idee abbiano lo sappiamo C'è anche un vicesindaco fascista...»

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