Mano nella mano attraverso il crollo dell'impero rosso
Mano nella mano attraverso il crollo dell'impero rosso Rqjq e Mikhaii, amore sulle al] della storia Mano nella mano attraverso il crollo dell'impero rosso il ricordo GiuHettoChiesa inviato a MUNSTER Guardandola, così attenta alle forme, ai particolari, sempre impeccabile nel vestire, accurata nei suoi movimenti, nel tono della voce, sembrava non avesse mai fatto parte del suo mondo, delle terre dalle quali veniva, terre contadine, ispide, dure, dal suo stesso passato. Che era stato, per lei come per suo marito, come per tutti i suoi coetanei, senza agi, senza mollezze. E per lei particolarmente era stato un passato povero, nomade a bordo di un vagone, per anni, senza luce né acqua corrente. Cambiando scuola ogni anno, con un padre che era stato inghiottito per quattro anni dal Lager della collettivizzazione. Non ne parlava volentieri, ma non l'aveva dimenticato. Aveva camminato nei campi, a piedi nudi, -marsr muoveva come un'indossatrice..LKra anche lei iuna «mutante», come suo marito: l'ultimo segretario generale del Pcus, ma anche il riformatore; 1'«apparatcik» che aveva percorso tutti gli scalini della carriera burocratica, ma anche la mente che aveva saputo aprirsi e aprire il Paese al mondo estemo. Al fianco di Mikhail Sergeevic così lo chiamava sempre, con un misto di affetto scherzoso - aveva solo due scelte: sparire nella sua ombra, come tutte le donne dei leaders sovietici che l'avevano preceduta, oppure affrontare le novità imposte dalla perestroika. Avendola vista molto da vicino, direi che non le fu facile. Era, dei due, la più conservatrice. Il suo stile era quello, austero e autoritario, della famigilia contadina del Mezzogiorno russo, che col tempo si era venuto caricando di impennate didattiche da insegnante, qual era stata e rimase fino in fondo, e non accettava di essere chiamata «zarina rossa». Credo che fu questa una, non l'unica, delle cause che le attirarono molte antipatie tra il pubblico russo della televisione. Quel suo tono da maestra, che impartiva lezioni, irritava gli uomini russi, che non ne sopportano dalle donne, e le donne nisse, che non osavano specchiarsi in un'immagine femminile così assertiva. Se ne accorse dopo. Una volta me lo disse: «Vede, nessuno ci aveva mai spiegato cosa fosse l'immagine. Sicuramente abbiamo fatto degli errori». Ed era pronta ad ascoltare, quando si rendeva conto di poter imparare. Prima di Sanremo - fu Raissa a convincere Gorbaciov che esitava mi chiesero di spiegare il contesto inedito in cui si sarebbero trovati, nel mezzo di un festiva musicale. E fu Raissa a fare più domande, a sollecitare, curiosa, più chiarimenti preliminari, «lascialo parlare, Mikhail Sergeevic, lui ne sa più di noi, è un giornalista e un occidentale». E risero entrambi. Ma Raissa era anche più dura di Mikhail. Negli anni che seguirono la sconfitta politica, anni dell'isolamento, erano sue le invettive più implacabili contro i vili, i voltagabbana, i servi che, appena liberati, si gettano ai piedi - ancora da servi - del nuovo vincitore. Più volte, quando vennero a casa mia, a Mosca, spesso a festeggiare il nostro Natale, perché il loro arriva quattordici giorni dopo, si discusse, anche animatamente, di politica, di uomini, di amici e avversari. E qualche volta, in casa del giornalista straniero, l'ex segretario generale del Pcus abbassava la voce quando si toccava un argomento delicato. «Che sentano pure, Mikhail Sergeevic!». E Raissa alzava al soffitto il suo sguardo fiammeggiante. Lui l'ascoltava sempre con la più grande attenzione, con un rispetto prudente, non affettato. E le lasciava l'ultima parola. Che lei per la verità non rifiutava mai, anche se Mikhail Sergeevic resta¬ va della propria opinione e, a ino' di conclusione, le prendeva la mano e gliela accarezzava. L'avevo visto fare, quel gesto, in pubblico, per la prima volta a Bonn, sul terrazzo del Comune, a fianco del cancelliere Kohl, E mi era parso un gesto abile, a uso e consumo del grande pubblico televisivo mondiale. Non era cosi. lira il gesto di chi cerca comunicazione, istintivamente, un gesto meridionale. Si può solo dire che, in privato, Raissa Maksimovna fu sempre molto, molto diversa da ciò che rappresentava in pubblico, di quella parte di sé che sapeva e voleva mostrare a chi non le era vicino. Della loro vita privata, infatti, era più facile sentir raccontare Mikhail Gorbaciov. Che pure fu il secondo, tra i due, a rendersi pienamente conto non solo di non essere più presidente, ina che non lo sarebbe mai più stato. Gorbaciov lottò ancora qualche anno con l'armatura di presidente dell'Urss che gli pesava addosso. Raissa invece aveva capito subito, l'aveva sentito sulla sua pelle nei lunghi mesi di malattia che seguirono i tre giorni di arresto del golpe dell'agosto 1991, che il suo Mikhail Sergeevic doveva accontentarsi di essere entrato nella storia. Quando si trattò della candidai tira presidenziale nel 1996, lei fece di tutto per dissuaderlo. Lei, più di lui, si era resa conto che senza televisioni, con tutti i «media» sarcasticamente contro, si era resa conto che non bisognava tentare. «Non ti faranno neanche parlare, ecco tutto», gli diceva severa, fulminando con occhiatacce i consiglieri che suggerivano il contrario. Ebbe ragione lei, come sappiamo. Adesso tutti diranno che fu un'innovatrice, che nippe una tradizione, che fu ostica ai suoi connazionali perché troppo occidentale, troppo elegante, troppo influente, lo ebbi l'impressione opposta. Accompagnava suo marito ai grandi vertici del mondo con il suo stesso spirito. E il giudizio che mi sono fallo di lui e di lei è in questo senso lo stesso, identico. Portavano il rinnovamento, ma non scimmiottavano l'estero. Era il loro rinnovamento, la perestrojka sovietica, quello che volevano esportare. A Raissa toccava il compito, difficile, di non perdere la battaglia dell'immagine. E lei lo affrontava con l'orgoglio della sua laurea sovietica in sociologia, con medaglia d'oro. Anche quella volta che Nancy Reagan le fece arrivare un biglietto in cui l'avvertiva che sarebbe giunta «in lungo», troppo tardi per rimediare, al ricevimento ufficiale. «E io - mi disse - il vestito lungo proprio non ce lo avevo)). Raissa e Mikhail erano una coppia forte, insieme. Si appoggiavano uno all'altra e viceversa. Non credo - me lo disse lui stesso - clic; una sola grande questione egli l'abbia mai sciolta senza il suo consiglio, come quando, all'inizio della loro avventura politica, lo stesso giorno in cui Mikhail Sergeevic fu nominato segretario generale, andarono a passeggiare nel parco. Era il marzo del 1985 e nei Ixischi attorno a Mosca c'era ancora la neve. E nelle dacie, anche in quelle dei potenti, c'erano ancora i microfoni. E lui le disse: «Raja, così non si può più andare avanti, bisogna cambiare». E lei fu d'accordo e si prese la sua parte di croce. Non di gloria. Erano passati 24 anni giusti da quella primavera del 1951 in cui si erano conosciuti, a un corso di ballo, passione comune. E dal loro innamoramento, che sbocciò quando lei si fece male a un piede e lui andò a trovarla e cominciò a cantarle canzoni che le toccarono il cuore. Che ieri si è fermato. A dimostrazione che l'amore non può vincere la morte, ma può aprire strade infinite in altri cuori e menti. Raissa e Mikhail hanno fatto il loro ultimo regalo, di dignità e amore, a una Russia che sembra avere smarrito ogni strada. Raissa Gorbaciova con il marito saluta dalla scaletta dell'aereo in una fredda e ventosa giornata dell'ottobre 1986 a Reykjavik, in Islanda
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