Processo Pecorelli, gran finale Si scioglie il rebus Andreotti di Giovanni Bianconi

Processo Pecorelli, gran finale Si scioglie il rebus Andreotti Dopo 162 udienze oggi la corte d'assise di Perugia si ritira in camera di consiglio. La sentenza in settimana Processo Pecorelli, gran finale Si scioglie il rebus Andreotti GLI IMPUTATI Giovanni Bianconi ROMA Un presidente del Consiglio che fa ammazzare un giornalista - tramite un magistrato futuro senatore, due boss mafiosi e due killer quasi professionisti - «non è una verità gradevole» nemmeno per il pubblico ministero convinto di aver scoperto la trama e trascinato i colpevoli davanti alla corte d'assise. Lo dice chiaro, quell'ex ragazzo con la toga sulle spalle, che quando fu ucciso Mino Pecorelli non era ancora entrato in magistratura, ma poi aggiunge: «L'intento di dimenticare per favorire la riconciliazione nel Paese può essere anche comprensibile, ma questo compito non spetta al giudice». Per questo, a vent'anni e qualche mese dalla sera in cui Pecorelli fu ucciso in una via di Roma da quattro proiettili calibro 7,65, il pm di Perugia Alessandro Cannevaie ribadisce le sue richieste ai due giudici togati e ai sei popolari con la fascia tricolore a tracolla: condannate all'ergastolo Giulio Andreotti, Claudio Vitalone, Tano Badalamenti, Pippo Calò, Michelangelo La Barbera e Massimo Carminati, tutti colpevoli di quell'omicidio. E' la scena vissuta lunedi scorso nel carcere-bunker di Capanne, quindici chilometri da Pemgia, all'inizio delle repliche finali. Poi, per quattro giorni di fila, hanno parlato i difensori degli imputati. «Il pm di questo processo è un grande pittore astratto; voleva fare un ritratto di Giulio Andreotti ma non c'è riuscito, e così s'è buttato sull'astrattismo, tecnica che però si estranea dalla realtà. Assolvete Andreotti, in modo da scoprire chi c'è dietro le false dichiarazioni contro di lui», dice l'avvocato del senatore a vita. E quello di Vitalone: «L'accusa ha finito per cambiare il movente del delitto, e oggi non si sa più qual è. Tutto il processo è fondato su affermazioni che hanno dell'incredibile». Il legale di Badalamenti attacca il pentito Tommaso Buscetta: «Don Masino parla per vendetta», e via di seguito tutti gli altri difensori a dire che contro gli imputati non c'è uno straccio di prova. Infine, alla penultima udienza, l'appello accorato di Claudio VitaIone: «Gli ultimi sei, per me, sono stati anni di inutili sofferenze. Mai più si dovrà verificare che in Italia venga costruito sul nulla un processo come questo. Ho la coscienza serena, e nei miei confronti si è svolta un'inutile persecuzione». L'ultimo appuntamento è per stamane alle 9, quando dovrebbe prendere la parola Pippo Calò. Poi - a meno di clamorose e inaspettati ritardi - la corte si ritirerà in camera di consiglio e ne uscirà tra qualche giorno con la risposta che l'Italia aspetta dal 1992, quando si affacciarono le prime accuse: davvero Andreotti ha fatto uccidere Pecorelli? E Vitalone? E ci fu veramente la mediazione della mafia, per arrivare alla coppia di killer, uno di Cosa Nostra e l'altro della banda della Magliana? Tre anni e cinque mesi di processo - 162 udienze, 231 testimoni, 326 «produzioni documentali» - ci sono voluti per arrivare al traguardo di oggi. E prima ancora altri tre anni di inchiesta, cominciata a Roma, passata per il vaglio del Senato della Repubblica, portata a termine a Perugia dopo l'entrata in scena di Vitalone, all'epoca dei fatti magistrato in servizio nella capitale. Un periodo lunghissimo (più del tempo medio dì un corso di laurea, e siamo soltanto alla vigilia della sentenza di primo grado) per ricostruire una trama che - secondo l'accusa - suona così: Pecorelli dava fastidio ed era in grado di ricattare Giulio Andreotti perché custode di segreti scomodi per il capo del governo; segreti legati al caso Moro e alle «confessioni» che il presidente della de aveva fatto ai brigatisti rossi durante il suo sequestro. Gli uomini del presidente del Consiglio - il «fedelissimo» Vitalone in testa - si organizzarono così per toglierlo di mezzo, rivolgendosi ai cugini Salvo, esattori mafiosi legati a Salvo Lima (luogotenente di Andreotti in Sicilia) i (piali girarono la «commissione» ai loro referenti: Stefano Bontate (ucciso un paio d'anni più tardi nella guerra di mafia) e Tano Badalamenti. Da lì, tramite l'ambasciatore di Cosa Nostra a Roma Pippo Calò, vennero fuori i nomi dei due sicari utilizzati per sparare al giornalista: Angelo La Barbera, killer mafioso già sperimentato, e Massimo Carminati, terrorista «nero» dei Nar che non disdegnava di lavorare per la banda della Magliana. E due dei proiettili che hanno ucciso Pecorelli provengono da un «arsenale» della malavita romana che era a disposizione proprio della Magliana e dei Nar. Nel 1992, a 13 anni dal delitto, l'inchiesta giudiziaria per l'omicidio Pecorelli dormiva negli archivi della procura di Roma, lui Buscetta a farla riaprire, con le sue rivelazioni seguite alla strage di Capaci, rivelando le confessioni elicgli fece Badalamenti in Brasile parlandogli della richiesta avanzata dai cugini Salvo, nell'interesse di Andreotti. «Ma che dietro il delitto ci fosse Andreotti è una sua congettura?», gli chiese in aula l'avvocato del senatore a vita. E don Masino rispose: «Congettura no, praticità della vita». Poi arrivarono i pentiti della banda della Magliana, a parlare di Vitalone. Uno di loro disse che a sparare fu «un siciliano», che riconobbe nella fotografia di Michelangelo La Barbera. Per i pm di Pemgia era la quadratura del cerchio, nell'autunno del '95 ottennero il rinvio a giudizio, ora hanno chiesto le condanni! e aspettano il verdetto come l'aspettano gii imputati, convinti di essere finiti nel tritacarne di un complotto o, nel migliore dei casi, di un'indagine sbagliata. Un verdetto che sarà «storico» in ogni caso, perché contribuirà a scrivere un pezzo di storia d'Italia e a leggerne altri, perii passatoi; perii futuro. Giuseppe Calò, 68 anni, detenuto per altre condanne di mafia, considerato il «cassiere di Cosa Nostra» nonché l'ambasciatore dell'organizzazione a Roma. Secondo la ricostruzione dei pubblici ministeri «doveva partecipare al processo essendo da tempo il referente più importante degli affari romani di Cosa Nostra». Ha legami con la banda della Magliana, in particolare con il gruppo dei «testaccini» che sceglieranno uno dei due killer. ÉT-^ffi^Bj Massimo Carminati, 41 anni, ex terrorista «nero» dei Nuclei armati rivoluzionari, passato poi - secondo le accuse - alla manovalanza della banda della Magliana: svolge il ruolo di copertura del killer al momento del delitto, «perché serviva un'altra persona, uno del luogo che, al bisogno, sapesse anche usare le armi». A sceglierlo sarebbe stato Franco Giuseppina uno dei capi dei «testaccini» della Magliana, ucciso a Roma nel 1980. L'accusa: voler dimenticare è anche comprensibile ma non è compito del giudice La difesa: il senatore va assolto Solo in questo modo si potrà scoprire chi si nasconde dietro alle false accuse contro di lui Un'udienza del processo per il delitto Pecorelli. presente il senatore Giulio And reorti imputato dell'omicidio del giornalista Giulio Andreotti, 80 anni, senatore a vita, sette volte presidente del Consiglio. Per l'accusa è il mandante dell'omicidio Pecorelli, reso necessario dai troppi segreti che il giornalista custodiva sul suo conto, in particolare quelli contenuti nel memoriale di Moro rimasto inedito dopo la scoperta dei covi brigatisti (sarà ritrovato solo nel 1990), ma del quale il direttore di O.P era a conoscenza fin dal 1978. Claudio Vitalone, 63 anni, magistrato, exsenatore De. Anche lui viene considerato mandante del delitto, perché - sostengono i pm - «interessato alle sorli di Andreotti, al quale aveva legato le sue fortune di magistrato atipico e al quale stava per legare la sua nascente carriera politica». Lui conosceva i cugini Salvo e lui, secondo l'accusa, chiese loro la «soluzione finale» nei confronti del giornalista scomodo. Tre mesi dopo l'omicidio Pecorelli fu eletto senatore in un collegio «sicuro» della Puglia. Gaetano Badalamenti, 76 anni, detenuto in carcere del New Jersey, Stati Uniti, dove sta scontando una condanna a 43 anni di reclusione. Il pentito Tommaso Buscetta racconta che proprio don Tano, in Brasile, gli confidò di aver organizzato l'omicidio Pecorelli, insieme all'altro boss Stefano Bontate, per conto dei cugini Salvo, perché «ci interessava a zu' Giulio», cioè Andreotti. Michelangelo La Barbera, 56 anni, mafioso della famiglia palermitana di Passo di Rigano, detenuto per altre condanne. E' accusato di essere l'esecutore materiale dell'omicidio Pecorelli: venne scelto per la missione perché «era un ragazzo ÉT-^ffi^Bj valido, che aveva già ucciso e ebe era già stato a Roma». Il pentito della banda della Magliana Antonio Mancini lo ha riconosciuto in fotografia, durante le indagini preliminari, indicandolo come «Angiolino il biondo». Il giornalista Mino Pecorelli direttore della rivista Op ucciso a Roma vent'anni fa da quattro colpi di pistola