IL MURO CHE NON E' CADUTO di Barbara Spinelli

IL MURO CHE NON E' CADUTO DALLA PRIMA PAGINA IL MURO CHE NON E' CADUTO Barbara Spinelli con l'aiuto solerte ma cieco dell'Occidente - il suo personale capitalismo banditesco, delle nomenclature rosse che restano padrone incontrastate riciclandosi in mafie. I responsabili occidentali guardano questo precipitare russo con aria attonita, come colti di sorpresa, ma assai da lontano: folgorati a tal punto dagli ultimi eventi che la parola giusta manca, e assieme ad essa la capacità d'iniziativa, il senso d'estrema urgenza. Forse perché ci mette molto più tempo a cadere di quel che si credesse, il famoso muro di Berlino. Qualche primo velo è caduto ma sempre ne restano altri: egualmente opachi, immobilizzanti, clandestinamente riconfortanti. Dell'ideologia si sa tutto, ma poco o nulla si conosce della nuda vita delle genti.che dell'ideologia è la miserrima, ininterrotta secrezione. Resta un velo anche in questi giorni, malgrado le prime pagine dei giornali e qualche parola inquieta della Casa Bianca. La Russia somiglia sempre più alla Germania di Weimar - scossa da attentati, animata da risentimenti antidemocratici inaspriti - e in Occidente si fa poco per pensare i disastri postcomunisti. Nella capitale dell'ex impero si molti¬ plicano i politici che sperano di risolvere le dispute di potere ricorrendo a nuove guerre in Cecenia, e perseguitando gli abitanti caucasici di Mosca con la scusa del terrorismo, e i dirigenti occidentali non sembrano travagliati da altro che dalle proprie delusioni, soprattutto in Europa. Sono delusi gli ottimisti dei primi Anni Novanta, allo stesso modo in cui lo sono sono i pessimisti che d'un tratto provano irrefrenabili nostalgie per i bei muri che dividevano l'Europa, per il vecchio e tranquillizzante equilibrio garantito a Yalta dalla svendita di mezza Europa, per l'ordine comunista che aveva impedito alle micronazionalità baltiche o caucasiche, balcaniche o musulmane, di esprimersi oppure esplodere. L'aveva impedito non con la forza di persuasione che possiedono le democrazie, bensì con il terrore che si limita a congelare le aspirazioni secessioniste nascoste: è quello che volutamente si dimentica, per non ingombrare troppo le menti. Tale smemoratezza è comune agli ottimisti come ai nostalgici, che inaspettatamente diventano complici. I primi credettero che sarebbe bastato l'avvento del capitalismo per creare stabilità politica, e furono sordi al monito di Popper che dava priorità assoluta alle istituzioni da rifondare, al senso della legge da restaurare, alla creazione di uno Stato di diritto, a una giustizia indipendente. Che invocava un immenso travaglio autocritico, assai più vasto delle privatizzazioni e del liberismo consigliati - peraltro timidamente - da un Fondo Monetario condannato ad agire sotto influenza dei politici. Talmente inconsistenti erano le idee degli ottimisti, che alcuni presero in prestito le proprie visioni non dall'intelligenza dell'anticomunismo, ma da fonti oltremodo sospette. E' il caso di Francis Fukuyama, il consigliere del Dipartimento di Stato che tanto affascinò le classi dirigenti occidentali: convinto che non esistevano più pericoli dacché l'idea comunista era fallita, l'analista resuscitò le tesi di Kojève sulla Fine della Storia. Oggi si sa che il filosofo Kojève, grande esperto di Hegel, fu per trent'anni agente del Kgb. Ma i pessimisti non sono da meno. Constatano quel che accade nei Balcani o nel Caucaso.constatano i disordini gementi che accompagnano la nascita di un nuovo ordine politico in Russia o Europa sud-orientale, e trascurano anch'essi la tappa democratica che Russia o Serbia hanno mancato. Spesso sembrano aver perduto la memoria, di quel che fu nei fatti il comunismo: non semplicemente una dottrina, ma un sistema di potere, un metodo totalitario e poi banditesco di mantenerlo, uno strumento per deformare durevolmente le società nonché le singole persone. E' il motivo per cui non scorgono legami di causalità, tra il mondo di ieri e di oggi. Non vedono come una nomenclatura già mafiosa ai tempi comunisti si sia lestamente riciclata in malavita mondiale, profittando della cieca fiducia occidentale in un capitalismo senza democrazia dei diritti e doveri. Non vedono le radici lontane degli odierni fermenti indipendentisti, nel Caucaso ancora dipendente da Mosca. Sul Corriere della Sera, l'ex ambasciatore Sergio Romano rimpiange un impero comunista e un'influenza sovietica che «benché odiosi», seppero pur sempre «dare una cittadinanza comune a popoli e gruppi religiosi che non hanno mai appreso, nel corso della loro storia, l'arte della convivenza». A parte il fatto che concetti laici e repubblicani come cittadinanza non avevano spazio nel comunismo, la storia suggerisce ben altro. Per mettere a tacere popolazioni come quella tartara che oggi reclama l'autonomia, o quella cecena, o quella karaciai nella Repubblica di Karaciaevo-Circassia, il comunismo non trovò altro metodo, prima e dopo la seconda guerra mondiale, che quello imitato successivamente da Phnom Penh, Belgrado, Giakarta: la deportazione in massa - verso la Siberia o nei Gulag - di intere popolazioni sgradite, liquidabili. Simili deportazioni non si scordano, non insegnano l'arte di convivere: assieme alla miseria, sono l'incubo-che ingenera oggi parecchie insurrezioni nazionali contro Mosca. Ottimisti e pessimisti condividono bizzarramente la medesima illusione, già spezzata dopo il crack asiatico: che si possano creare istituzioni ed economie di mercato durature, senza democrazia né regno della legge. Il capitalismo postsovietico ho i caratteri violenti, senza-legge, distruttori, che i comunisti hanno appreso non dal Fondo Monetario ma dai testi di Marx, e anche questo non fu intuito da ottimisti o nostalgici. Eppure i russi lo sanno, quando ripetono nelle loro battute: «Tutto quel che hanno detto i comunisti sul comunismo era completa menzogna. Ma tutto quel che i comunisti hanno detto sul capitalismo si è rivelato vero». L'auto-soddisfazione occidentale nasce da questa sconnessione tra dottrina e disastri reali prodotti dalla dottrina, dopo l'89 e la fine dell'Urss. E anche il sotterraneo disinteresse per la Russia, costante negli ultimi sette anni, trae origine da analoga sconnessione. Mosca era interessante fintantoché incarnava un'ideologia, lungamente condivisa o combattuta. Ma una volta sconfitte le idee, non si è scesi dalla stratosfera per esaminare più da vicino quel mondo di uomini deturpato, diseducato, maltrattato: vuoi perché le idee son state d'un colpo dimenticate, vuoi perché surrettiziamente si è voluto proteggerle. Perduta l'ideologia, la Russia è stata anzi allontanata dalle nostre frontiere mentali: le sue vicende interessano infinitamente meno che ai tempi comunisti. Sulla Russia weimariana con le sue 6000 atomiche intatte non esiste allarme autentico, e al massimo i giornali ironizzano, sullo zar Boris o sulla famiglia che lo circonda. Durante il comunismo ci fu allarme enorme, per Chcrnobyl. Oggi le bombe colpiscono una città atomica, a Volgodonsk nei pressi di una centrale, ed è indifferenza come se la nazione si fosse spostata a Est, verso il Pacifico. Il comunismo anche se mafioso prefigurava una Russia europea, ai nostri occhi. Oggi la Russia resta un pericolo centrale per l'Europa - così come resta nel nostro interesse aiutarla a salvarsi - ma avendo smarrito il cachet comunista non è considerata più salonfàhig, presentabile nei salotti d'Europa. Se non fosse così, se la Russia fosse percepita come una potenza europea, si sarebbe stati più esigenti durante la guerra in Cecenia: guerra scatenata in periodo pre-elettorale, proprio come quella che ricomincia oggi nel Caucaso. Si sarebbero esercitate pressioni non solo economiche ma politiche, geostrategiche. Il Caucaso trema, ad esempio, perché i vertici russi hanno mancato di sostenere Alslan Maskhadov, il Presidente ceceno moderato che gli islamisti radicali contestano, con un risentimento che Mosca ha più o meno coscientemente alimentato. La politica caucasica dei governi russi è una catastrofe sociale, economica, politica- e le tensioni odierne ne sono la conseguenza. Se non fosse così, l'Occidente osserverebbe con più inquietudine lo politiche di discriminazione ami - caucasiche e antimusulmane cui le autorità postcomuniste stanno ricorrendo con il pretesto del terrorismo. Un terrorismo di cui sono accusati i ceceni, automaticamente trasformati in capri espiatori, nonostante molteplici dubbi sussistano sui mandanti: lo scrittore Kriwulin, ad esempio, è convinto che non i ceceni siano responsabili ina l'ex Kgb che prepara le legislative di dicembre e le presidenziali del 2000. Tutto questo significa che la storia non è finita, con la fine di un'ideologia. Altre ideologie possono scaturire dalla vecchia, non meno totalitarie e inquietanti. La più pericolosa è quella slavoortodossa, propensa alle pulizie etniche e alle discriminazioni razziste, che va radicandosi in Russia. Una grande potenza nucleare rosso-bruna, nazionalista e razzista, è la minaccia che oggi si profila non fuori, ma dentro l'Europa. Fra gli esponenti della nuova linea non ci sono solo neonazisti come Zirinovski o Lukashenko. Yurij Luzhkov, sindaco di Mosca, candidato alla presidenza, alleato dell'ex Kgb Primakov, sta edificando la propria popolarità su misure anticaucasiche e anti- stranieri che ricordano da vicino l'assoluto divieto di circolazione delle genti, instaurato da Stalin. Eppure Luzhkov seduce l'Occidente e in particolare le sinistre governanti in Europa, quando fa i suoi elogi della socialdemocrazia. L'ingannevole gioco mondano-dottrinale con la Russia continua, indisturbato, e nuove guerre e nuovi morti saranno necessari, prima che l'Occidente strappi l'ultimo velo e guardi in faccia la nuda vita del postcomunismo.dietro i muri apparentemente caduti.