In un'intervista a Prima Comunicazione l'Avvocato racconta trent'anni da editore e i rapporti con i direttori

In un'intervista a Prima Comunicazione l'Avvocato racconta trent'anni da editore e i rapporti con i direttori In un'intervista a Prima Comunicazione l'Avvocato racconta trent'anni da editore e i rapporti con i direttori (...) Si dice che nessuno sappia quale sia la sua personale procedura per la scelta del direttore della Stampa. Guardi, parliamo dei direttori della Stampa sui quali ho potuto dire la mia. Il primo dei quali è stato Alberto Ronchey. Prima di Ronchey, i direttori fondamentali della Stampa sono stati Alfredo Frassati direttore per trent'anni prima della guerra e Giulio De Benedetti, dopo la guerra, per altri vent'anni. Tra Frassati e De Benedetti ci sono stati altri direttori di primissimo ordine, come Luigi Salvatorelli e Burzio, che tuttavia subirono i contraccolpi del periodo disordinatissimo della fine della guerra. In quel periodo gli avvicendamenti alla direzione della Stampa furono tumultuosi e riordinati. Durante la direzione di De Benedetti - che ebbe difficoltà con il regime e si rifugiò in Svizzera con l'aiuto di mio nonno - ci furono momenti di grossa battaglia: come lo scontro con il Partito comunista e quello con L'Unità che fu per noi un successo enorme perché avevamo ridotto L'Unità a vendere meno copie. Mi ricordo che la gente si lamentava perché La Stampa era diventata radicaleggiante. E io rispondevo: «Sì, ma è così che abbiamo ridotto L'Unità a vendere meno copie». E allora qualcuno replicava: «Certo, che se faceste La Stampa come L'Unità, L'Unità di copie non ne venderebbe nemmeno una». Lei andava d'accordo con De Benedetti? De Benedetti era un uomo molto difficile. Ma su una cosa eravamo del tutto d'accordo... lui aveva ormai un'ottantina d'anni... eravamo d'accordo che l'uomo più adatto per la direzione della Stampa dopo di lui era Alberto Ronchey. Mi ricordo che pregai Ronchey di prendere la responsabilità della Stampa quando Nixon fu eletto presidente degli Usa. Era il novembre del '68 e Ronchey copriva per La Stampa l'avvenimento dall'America, da New York. Lui mi disse subito di sì. Tomai a Torino e lo dissi a De Benedetti. Che osservò: «Sarebbe bene, però, che stesse un po' di tempo con me a fare il condirettore». E Ronchey replicò: «Non ci penso nemmeno». Era una maniera per farlo fuori. Ronchey ne capì la pericolosità. Era un rischio che non voleva correre. Ronchey è stato direttore per cinque o sei anni, fino al '73. E ha fatto molto bene: come qualità del giornale e come apertura internazionale. Non s'è mai capito bene perché ha lasciato. Ronchey si era stancato molto. Alla fine era nervosissimo... voi lo conoscete: è un uomo che si irrita facilmente. E chi lo innervosiva particolarmente era Giovanni Giovannini... Ma questa è un'indiscrezione. Non aveva tutti i torti. Era molto nervoso. Per di più stavano facendo dei lavori a casa sua che non lo facevano dormire. Era molto nervoso. Così mi disse: «Basta, questo lavoro non lo posso più fare». (...) Lei chiese il parere di Ronchey per il successore? Sì, gli chiesi se aveva qualche nome da suggerirmi. Ma lui mi disse che non voleva entrare nella storia del successore. «Ma guardi», gli dissi io, «che ho già scelto Arrigo Levi». «Ah, ma allora va benissimo», replicò lui. «E' quello che avrei scelto anch'io». Brutti tempi, quelli, con il terrorismo che dilagava. Eh sì. Ma devo dire che Levi si batté con determinazione. C'era il terrorismo, con il terribile caso dell'uccisione di Casalegno; e avevamo anche delle noie con Gheddafi, perché Frutterò e Lucentini lo sfottevano. Dovetti recuperare con Gheddafi perché mi faceva il sabotaggio sulle commesse della Libia alla Fiat. Voleva che licenziassi Levi. Ma chi, Gheddafi? Sì, Gheddafi.!...) Venne a Roma Jallud, il plenipotenziario di Gheddafi, e mi disse che Gheddafi voleva che io licenziassi Levi perché sennò avrebbe boicottato gli acquisti Fiat. E' ovvio che non ci pensavo nemmeno lontanamente a licenziare Levi. Ma fu un momento tempestoso con Gheddafi. Una tempesta in un bicchiere di sabbia. Eh, no, il colonnello non andava mica preso tanto sottogamba. Jallud riferiva con forza che Gheddafi si era arrabbiato moltissimo. Ci misero sulla lista di boicottaggio. Avevamo forniture di camion che vennero bloccate. Fu un fenomeno grave per la Fiat. Poi facemmo pace. E, infatti, quando qualche mese dopo Frutterò e Lucentini pubblicarono un altro articolo strafottente, non ci furono guai. Ma fu un brutto momento. Oltretutto, Arrigo appartiene a una religione che a Gheddafi non è tanto simpatica.!...) Dopo Levi tocca a Giorgio Fattori. Quando chiesi a Fattori di prendere la responsabilità della Stampa non ebbe un attimo di esitazione. E questo mi sorprese, perché quello era un periodo molto pericoloso e la gente non veniva volentieri a fare il direttore della Stampa. Mi sorprese la sua risposta immediata. Ci voleva carattere con quel clima cupo in città e in redazione. Era molto pericoloso. Ricordo che a Milano la pistola andava molto. Certi personaggi la depositavano quando entravano al ristorante, a cena, e la riprendevano quando uscivano. C'era addirittura chi, prendendo l'aereo per Roma, lasciava le sue due pistole all'autista e gliele ridavano quando atterrava. La pistola era uno status. Alcuni poi si divertivano a fare il boss all'americana. Come Ciarrapico, che riceveva i giornalisti con la pistola in bella vista sulla scrivania. Ai giornalisti faceva un certo effetto. Tanto è vero che nessuno ha mai pensato di controllare se per caso non fosse una pistola ad acqua. Il clima era quello, un clima pericoloso. E la risposta di Fattori - quel si immediato, istantaneo - mi sorprese. Devo dire che, ancora oggi, quando si nomina Fattori alla Stampa, lo si fa col rispetto e riguardo per uno che è stato un grandissimo direttore. Coraggio e decisione nell'entrare e grande dignità sempre. Quando, verso la fine del suo mandato, gli fu offerta la direzione del Corriere di Bazoliche allora era il sequestratario del Corriere - lui disse no perché si sentiva impegnato con La Stampa. Un atteggiamento di qualità perché l'accoppiata Stampa-Corriere è il sogno di tutti i direttori. Come fece poi Mieli. Lui sì che ci sa fare. Anche Ronchey ci teneva, e ci andò molto vicino. Del resto andare al Corriere in quell'epoca non era proprio il massimissimo, come dice lei. Poi dopo Fattori venne Scardocchia, che era un uomo di grandissime qualità. E tentò quel nuovo formato della Stampa con i 'dorsi', che non è andato molto bene. Questo l'ha inquietato e l'ha messo in difficoltà con la redazione. Tanto è vero che un giorno gli ho detto: «Che ne direbbe, Scardocchia, di fare il corrispondente da New York?». E lui mi rispose: «Non sa come la ringrazio. Non vedevo l'ora». E quando è andato a New York è stato il migliore corrispondente che abbiamo mai avuto. Andare a New York fu per lui una vera liberazione dalla gestione del giornale. - Lei mi ha chiesto se è vero che sono io a decidere la scelta e la nomina dei direttori della Stampa. E me lo chiede come se questo fosse un incarico anomalo. E io le rispondo che tra tutti quelli che hanno la pesante responsabilità della produzione Fiat - auto, camion e mezzi movimento terra - io in effetti ho più tempo per queste cose. Non voglio dire che ho più tempo da perdere, ma più tempo certamente. Quando venne Ronchey lo decisi io insieme a De Benedetti. Quando venne Fattori lo decise praticamente lui. Arrigo lo decisi io. Dopo Scardocchia, decisi io per Mieli. Vorrei quasi dire che Mieli lo inventai io, anche se lo conoscevo come responsabile della nostra sede di Roma. Per Mieli parlai con due persone, Fattori e Romiti. Fattori mi disse che non lo conosceva, e che si sarebbe informato. E mi dette luce verde. Romiti lo conobbe in quella occasione ed espresse subito un'opinione positiva. Ma in sostanza Mieli lo conoscevano pochi per dame un giudizio come direttore. (...)Mieli è un tipo straordinario, unico (...) Grandissime qualità. E avevo subito capito che era un direttore perfetto per La Stampa. E ne sono stato contentissimo. E poi è stato molto bravo a chiamare vicino a sé Ezio Mauro, che sarà il direttore dopo di lui. E' il suo vanto: io sono un direttore, dice, che quando se ne va lascia sempre una squadra pronta per prendere in mano il giornale. Quando se n'è andato dal Corriere aveva pronta la squadra di Ferruccio de Bortoli, che sta facendo molto bene, no? Benissimo. La cosa che mi ha sempre stupito un po' nell'avvicendamento dei direttori alla Stampa è stata la grande differenza di personalità tra chi usciva e chi entrava. Lei pensa che questa diversità rispecchi la diversa posizione della Stampa rispetto al mondo politico romano e alle contingenze industriali. Ma non è così. La mia scelta è sempre stata determinata da questa considerazione: sono o no uomini in grado di guidare un quotidiano come La Stampai Un quotidiano che ha una personalità solida, che non può essere stravolta da chi lo dirige. Certo che non trascuro le contingenze politiche o economiche. Mieli, ad esempio, è un grande esperto di politica interna come lo è anche il nostro Marcello Sorgi. Le dico la verità: mi interessano molto quando parlano di politica. Tanto Mieli quanto «La scelta degli uomini è sempre stata determinata da una considerazione: sanno guidare un quotidiano che ha una personalità solida che non può essere stravolta da chi lo dirige?» Il mensile di editoria Primo Comunicazione nel numero in edicola pubblica un'intervista del direttore Umberto Brunetti e del condirettore Alessandra Ravetta all'avvocato Giovanni Agnelli sul suo ruolo di editore e sui suoi rapporti con i giornali. Per gentile concessione di Prima anticipiamo un ampio stralcio dell'intervista dedicata a La Stampa. Ezio Mauro: «E stato nominato direttore quando Mieli è andaio al Corriere dopo Stille. E stato per me un'autentica sorpresa. Ero sicuro che sarebbe rimasto a La Stampa, non dico tutta la vita, ma per 10 o 15 anni» Carlo Rossella: «Aveva fatto molto bene alla Rai come direttore del TCI. Poi quando è arrivato a Lo Stampo mi sono reso conto che si era innamorato della tivù e che la sua passione per i viaggi era molto forte»