Val la pena esser solo: com'è raro I quel Pavese

Val la pena esser solo: com'è raro I quel Pavese COLLE ZIO NIS.MO Sandro Doma Val la pena esser solo: com'è raro I quel Pavese PARE che il motto "lavorare costa fatica", adottato da un nostro bravo poeta, sia ormai la parola d'ordine tra i letterati egli eruditi». Cosi Santorre Debenedetti scriveva a Einaudi nel 1940. E lui, di rimando: «Il bravo poeta la ringrazia della citazione lusinghiera». Pavese, assunto alla Einaudi nel 1938, era grato a chi ricordava Lavorare stanca, il suo primo libro di poesia ignorato dalla critica. Era stato stampato nel 1936 in 180 esemplari numerati - quarantesimo (e ultimo) volume delle edizioni di Solana a Firenze - dietro interessamento di Leone Ginzburg, consegnatario nel 1933 del manoscritto ad Alberto Carocci, direttore della editrice. Poi, Pavese aveva dovuto scontare ( 1935/36) un anno di confino a Brancaleone Calabro, mentre i tempi della pubblicazione di quei versi lunghi alla Whitman si allungavano por l'intervento della censura che aveva impedito la stampa di 4 poesie, per oscenità, ne rimasero 45. Stessa sorte - due anni fra la consegna del testo allo stampatore e la pubblicazione - per la successiva edizione, ampliata a 70 poesie, di Lavorare stanca proposta da Einaudi nel 1943. Emblematico dell'incomunicabilità, un verso di Lavorare stanca, la poesia che dà il titolo alla raccolta: «Val la pena di essere solo, per essere sempre più solo». La richiesta (libr. Fratini, Roma, lug. '99) per la 2a edizione Einaudi ('43) di lavorare stanca è di 200 mila lire (103 euro).

Luoghi citati: Brancaleone, Firenze, Roma