Quando studiare era un'impresa di Giorgio Calcagno
Quando studiare era un'impresa Le elementari sotto il Duce, la guerra, la Liberazione e il primo liceo «democratico» Quando studiare era un'impresa Giorgio Calcagno L A nostra generazione è entrata in prima elementare il 1 ' ottobre 1935, mentre il Duce dichiarava guerra al Negus, ed è uscita dalla terza liceo nel luglio 1948, mentre il giovane Antonio Pallante sparava a Palmiro Togliatti. Dalle «inique sanzioni» all'«esecrando gesto» in tredici anni è toccato a noi sperimentare lutto. Siamo stati i primi Figli della lupa; per mandarci a scuola il primo giorno le nostre mamme hanno tribolato un'ora con quel cinturone bianco da incrociare sul petto - le bande non tornavano mai - per poterci piantare in mezzo la M di Mussolini. Fra quegli innocenti c'erano bambini che si chiamavano Sergio Romano, Emanuele Severino, Goffredo Parise, Pietro Citati, Bartolomeo Sorge; e tanti altri illustri nati nel 1929. Gli stessi che, cinque anni dopo, avrebbero inaugurato, con noi, la prima Scuola Media Unica, nata dalla fantasia di Giuseppe Bottai. Spariva il tema di italiano, sostituito dalla «cronaca»; spariva, purtroppo, la lingua straniera, un handicap che ci avrebbe pesato a lungo, più tardi; in compenso ci davano la cultura militare. Ci saremmo potuti rifare con il superstite biennio del vecchio ginnasio: se non ci fosse stato precluso per altre ragioni. I bombardamenti dell'autunno 1942 ci avevano costretto a sfollare durante la terza media; e pochi mesi dopo, quando dovevamo iniziare la quarta, ci cadde addosso l'8 settembre. Per anni i nostri maestri furono il parroco di campagna che ci insegnava il latino e lo studente dello Scientifico sfollato anche lui - a cui chiedevamo aiuto per la matematica. Finalmente, dopo la Liberazione del 1945, si aprirono per noi le porte del liceo, la prima scuola democratica della nostra vita: nelle città distrutte dalle bombe, con il pane razionato e spesso mancante, senza riscaldamento nelle case rimaste in piedi. Il nostro esame di maturità, tre anni dopo, a Genova, fu interrotto per la sollevazione popolare seguita all'attentato a Togliatti. Bartali poteva anche prendere la maglia gialla al Tour, ma i ragazzi genovesi, nella città ostruita dalle barricate, alla scuola non La masi prepcon trd'ant urità arava e anni cipo potevano arrivarci. Era passata sotto i nostri occhi tutta la Storia, in quei tredici anni; e, in parte, l'avevamo patita di persona. Era cambiato il mondo, scomparso il paesaggio umano della nostra infanzia. Una sola cosa non era cambiata: la scuola. Quando ci presentammo al liceo, nell'ottobre del '45, i libri erano ancora, per la maggior parte, quelli sui quali avevano studiato i nostri fratelli, prima del 1940; se avevamo la fortuna di ritrovare gli stessi professori, potevamo fare splendide figure, nelle prove orali, utilizzando le note a margine che loro avevano scritto. Erano importanti, quelle note. C'era, dentro, tutta la sapienza di insegnanti appassionati alla loro disciplina, che cercavano di aggiungere qualcosa alla schematicità deìTibri di testo. Un professore di liceo era un personaggio autorevole, in città; il suo nome era conosciuto anche fuori dalle aule. I partiti se lo disputavano per averlo in lista. Era anche possibile non studiare, in quella scuola, e molti non studiavano. Erano in genere i figli di papà, che sapevano di avere un posto garantito magari da dirigente - nell'azienda paterna. Ma i più facevano tesoro di quei libri che avevano ereditato in famiglia, insieme con i calzoni diventati stretti al fratello maggiore. La parola violino o sgobbone non suonava un complimento nemmeno allora; chi studiava davvero non doveva perdere una partita di football o una tappa del Giro d'Italia. Se ricordava quanto dislacco Coppi aveva dato a Teisseire nella Sanremo del '46, non doveva più vergognarsi di sapere i 92 elementi della tavola di Mendelejev o i 46 Canti dell'Orlando Furioso. Poteva perfino ripetere, a memoria, qualche verso di Sofocle in greco. La Maturità si cominciava a preparare con tre anni di anticipo; era tornata a essere quella, terribile, della riforma Gentile. Ci si chiedeva, in classe, chi sarebbe arrivato a prendere il 9 di italiano, impresa che era riuscita, nel dopoguerra, a un solo studente della nostra città. Si chiamava Enzo Tortora. Ahimè, non ci sarebbe più arrivato nessuno. Ma Dante lo sapevamo tutti, ben chiosato, quando uscimmo, dopo quegli anni così duri, a riveder le stelle. La maturità si preparava con tre anni d'anticipo
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