Nella terra degli Aitarak di Giuseppe Zaccaria

Nella terra degli Aitarak I SIGNORI DEL KALASHNIKOV E DEL MACHETE Nella terra degli Aitarak Dove i miliziani-killer sono padroni assoluti reportage Giuseppe Zaccaria inviato a POLEN «Adesso basta», dice l'autista che blocca la jeep sul ciglio della strada, e comincia una frenetica inversione. Qualche centinaio di metri più avanti, ai bordi della foresta si notano figure vestite di néro su entrambi i lati della strada. «Io non faccio un metro in più: non con un bianco a bordo». Così il lungo viaggio verso Arambua, città di confine, si conclude senza appello dopo quattro ore di tornanti. E' quasi un sollievo, poiché lavorare da clandestino è esperienza nuova e frustrante: quattro ore chiuso in un'auto coi vetri oscurati senza poter mettere il naso fuori, senza abbassare i finestrini, senza mai uscire perché qualcuno può notare il colore della tua pelle. Essere vittime di un razzismo rovesciato a volte può rivelarsi esperienza preziosa. Ma se nell'isola di Timor, a Est come a Ovest, l'occidentale è guardato ormai con livore, questa provincia circondata dai monti oggi per lui è semplicemente off limits. Questo era il distretto di Arambua, uno dei più vasti di Timor Ovest, ma adesso nuovo territorio dell'«Aitarak», una sorta di zona franca dove i paramilitari, gli aggressori, i banditi riparati oltre frontiera hanno installato una sorta di protettorato da cui nessuno sembra in grado di scacciarli. «Disarmeremo chiunque si trovi nel nostro territorio», aveva dichiarato solenne il generale indonesiano responsabile di quest'area. A giudicare da quel che abbiamo visto nelle ultime due ore, i soli disarmati • perché assenti sono proprio i soldati di Giakarta. La lunga strada che si avvita da Kupang verso l'interno e quindi la frontiera oggi è il regno di camion e furgoni, vecchi pullman, auto fuoristrada e perfino di un «caterpillar» che innalzano la bandiera degli Aitarak, le spine. Gli uomini cavalcano quei mezzi con l'aria fiera dell'occupante, brandiscono mitra e machete, scendono verso valle portando con sé le spoglie diIl leader indonAl confidue Timotraccia de un Paese distrutto, risalgono a monte con i camion vuoti. E' uno spettacolo incredibile, primitivo. Il bottino viene esibito, ostentato: in questo momento dinanzi a noi un vecchio camion targato Timor Est ansima portando sul cassone altissime pile di sedie, centinaia di pneumatici, e altra indistinguibile paccottiglia. Le gómme portate via da chissà quale deposito non entravano tutte sul cassone, alcune sono appese alle fiancate, come nelle barche. Dietro, penzola perfino un'enorme gabbia da pappagalli. Questo esercito di «patrioti», questa accozzaglia di assassini scende verso la capitale per piazzare il bottino e poi rientra nel suo territorio. Cominciano a farsi sempre più aggressivi, i guerriglieri lealisti: stamani, nell'albergo di Kupang in cui alloggiano i giornalisti, si è fatto vivo un individuo con tanto di maglietta nera, di scritta «Aitarak» sulla schiena, di banda biancorossa intorno al capo, kalashnikov in spalla, machete nella mano sinistra e coltellaccio fissato ai pantaloni. Era quasi ridicolo. Un nanetto dall'aria aggressiva e dai lunghi capelli unti che pretendeva di avere un elenco degli stranieri alloggiati in albergo, e nel frattempo voleva sedersi a prendere il té come un vero capomanipolo. Il direttore e due poliziotti l'hanno accompagnato fuori, però con una certa prudenza. Adesso, in cima alle montagne di Atambua la deferenza dei timoresi dell'Ovest stinge verso la paura. Il paesaggio è bellissimo, la gente qui veste il tradizionale «sarong», i villaggi e le cittadine hanno nomi sempre più esotici: Soa, Niki-Niki. Il clima però, quello psicologico, si fa sempre più cupo. Dietro una curva, tracce di un posto di blocco appena sospeso: bi doni abbandonati sulla carreg giata, poco più in là una tenda che ha accolto la soldataglia e resta piantata, in attesa che i controlli riprendano. Un altro tornante ed ecco finalmente l'esercito indone siano, ma è solo un camion che s'è guastato. I soldati sono scesi e aspettano, mentre po chi metri più in là un camion della polizia sembra voler pre stare soccorso. Ma quelli non sono agenti, sono gli «Aita- esiano Habibie ne tra le or non c'è ll'esercito rak». Si stanno muovendo a bordo di un mezzo della polizia come ne fossero padroni. Foco più avanti, un piccolo convoglio di camion dell'esercito lascerà anche l'ultimo velo di pudore. I mezzi sono zeppi di uomini in «T-shirt» nere che brandendo ì mitra difendono i cassoni traboccanti del bottino di guerra. Altro che disarmati: i paramilitari che hanno sconvolto l'Est adesso controllano anche una zona dell'Ovest. L'altra sera nei campi profughi di Atambua sono andati alla ricerca di altri «indipendentisti»: ne hanno ammazzati tre. Nei villaggi, quando i pullinini carichi di contadini creano il solito blocco, vigili indonesiani intervengono subito con fischietto e inazza (qui le mazze sono corollario indispensabile di ogni divisa) per aprire la strada ai convogli dei guerriglieri. Questo controllo totale dell'unica via di comunicazione sta provocando un dramma nel dramma. Migliaia, forse decine di migliaia di fuggitivi dall'Est urinai evitano le citta e i campi profughi, tentano di muoversi attraverso la vegetazione, danno vita a un «popolo delle montagne» che emigra lentissimamente senza cibo, senza acqua, privo di ogni assistenza. Le ultime stime della Fao calcolano in settemila i morti di Timor Est, in 300 mila i fuggitivi, in quasi 200 mila le persone che sono a concreto rischio di morte per fame. L'intervento delle Nazioni Unite, in qualsiasi giorno avvenga, sarà stato tardivo, ma questo strapotere delle bande in una regione di confine, questa tacita rinuncia dello Stato di Indonesia a una fetta della sua sovranità lasciano intuire scenari che proiettano morte anche nel futuro. Perché tenere in piedi un'organizzazione così potente proprio perché tanto selvaggia? Perché consentire ai paramilitari di organizzarsi vicino al confine se non ipotizzando una nuova guerriglia, infiltrazioni continue nel territorio che sarà affidato ai Caschi blu? Poi, sarebbe il caso di intendersi finalmente sulle definizioni. Chiamare «paramilitari» questi selvaggi è come definire ghepardo un gattaccio di strada. Il loro patriottismo si rivela dal modo in cui esibiscono il fruito di stupri e | assassinii, da come passeggiano tracotanti nei paesini, entrando dovunque, chiedendo qualsiasi cosa, andando via senza pagare. Si sentono eroi, i nuovi padroni della provincia di Atambua. Lo Stato di Indonesia non ha il coraggio di sbugiardarli, non ha la forza per contrastarli. Prima o poi, gli «Aitarak» presenteranno il conto. Al confine tra le due Timor non c'è traccia dell'esercito Il leader indonesiano Habibie

Persone citate: Foco, Habibie, Migliaia

Luoghi citati: Giakarta, Indonesia, Timor Est