Ungari, la vita come un gioco

Ungari, la vita come un gioco DRAMMATICA SCOMPARSA DI UN GRANDE ERUDITO Ungari, la vita come un gioco Sapeva tutto, si sentiva una leggenda di Palazzo personaggio Filippo Ceccarelll COME ci si immagina la fine di un grande e malizioso erudito? Come poteva morire, in altro parole; Paolino Ungari? Consumandosi lentamente fra le sue mille amate carte; oppure facendosi venire in testa un'illuminante n ironica analogia. Poi, nelle ultime volontà, la donazione dei 45 mila volumi a qualche istituto, la borsa di studio e amen - sia pure nel senso laico dell'espressione. Tutto, comunque, con molta calma. Di solito gli studiosi muoiono così: in modo che la loro scienza abbia il modo di assestarsi nel ricordo come sotto una placida coltre di riconoscimenti. Invece, la fine del professor Ungari sta tutta in quel ruzzolone improvviso, la borsa che schizza via per le scalo, quel volo dentro un pozzo, quello schianto, quel buio (la tromba d'ascensore. E il cadavere che resta lì per tre giorni, tra polvere e lanuggine, cicche e ('rammenti d'intonaco. Li avrebbe descritti bene lui stesso, raccontatore non alieno da effetti un po' horror, quel salto e quel sepolcro in un palazzo incastrato fra le linee rettangolari delle Botteghe Oscure, le bulaustre festose del terrazzo della Donatella Pecci Blunt e il biuncore del Vittoriano. Più o meno l'edificio, il set prescelto da Peter Groenaway ne «11 ventre dell'architetto». Lo sapeva sicuramente, Ungari, sapeva tutto. Lo andavi a trovare con una domanda e tornavi con sette risposte, tutte preziosissime, possibilmente in contraddizione tra loro. Può non essere consolante, ma pure in questa sua morte Paolino Ungari si conferma una figura eccezionale, la meno scontata che si possa immaginare. I grandi meriti del giurista (studi su Alfredo Rocco e il diritto di famiglia), le capacità dol professore (già insegnante al «Cesare Alfieri» e preside di Scienze politiche alla Luiss), l'esperienza della politica universitaria (aveva calcolato che dalla sua generazione erano usciti una quarantina di parlamentari, tre presidenti del Consiglio, un presidente della Repubblica e due della Corte costituzionale), il ruolo del consigliere politico (da Ugo La Malfa a Spadolini), la generosi- tà del suo impegno contro le ingiustizie e per i diritti civili (prima ad Amnesty international poi alla guida della Commissione di Palazzo Chigi), insomma, tutto questo non toglie nulla alla bizzarra e tenera umanità del personaggio, che sombrava uscito da un cartono animato. Era davvero unico, Paolino: pallido, rotondetto, due fessure ridenti dietro cui s'immaginavano occhi celesti da bambi- no e un tic sonoro, dalle parti del naso, che nel mezzo delle sue affabulazioni lo portava a emettere una specie di squittio tipo sgnick-sgnick. Dormiva di giorno e studiava di notte; una volta si addormentò al telefono mentre gli stavano commissionando la stesura di un importante provvedimento; Spadolini, spaventatissimo, gli spedì i carabinieri, che lo svegliarono. Battute, aneddoti, massime: un'enciclopedia vivente. Ma senza nulla volerne fare una caricatura, si sentiva lui stesso un'autentica leggenda di palazzo e di questa fama si inorgogliva. All'inizio degli Anni Ottanta Roberto Benigni, alle prime armi, compose una canzonetta che s'intitolava «Pantheon». Al Pantheon, diceva il ritornello, ci trovi tanti tipi strani, «c'è Ungari e c'è Melani». Paolino si convinse di essere lui, e Melani il suo amico Eugenio, giornalista del Giornale, spesso a pranzo da «Fortunato». In realtà il comico intendeva Enzo Ungari e Marco Melani, esponenti della cultura cinematografica, ma Paolino metteva su il 45 giri e ascoltava appagato, divertito. Sempre in giacca e cravatta, sempre «impataccato». Pensieroso, di norma, ogni tanto scattava come ridestato lampi geniali e micidiali. Più che distratto, faceva l'impressione di un tipo vago; di una vaghezza metafisica, poetica e perfino produttiva. Il distacco dalle cose terrene gli recava in dote un fervore civile e una saggezza fatta di paradossi, ribaltamenti, salti logici. Mai spocchia. Non gli importava di essere eccentrico, ma libero: e lo era. A Palazzo Chigi scoprì una stanzetta di finti specchi usata nel Seicento da un principe voyeur e portava gli amici a visitarla e a sedersi sull'apposita panchetta. Abitava in una specie di biblioteca dentro cui seguitava a coltivare quella sua leggenda ria ed enciclopedica arguzia su codici, commissioni, costituzio ni, consigli di Stato, Corti dei conti, Corti costituzionali e debolezze umane. Non di rado dimenticava le chiavi e allora, per entrare, spalancava la finestra del pianerottolo e non senza batticuore dell'ospite che lo vedeva per un attimo scalciare appeso all'inferriata, penetrava in casa. La vita come un gioco da prendersi molto sul serio: prima di cadere, come capita a tutti - ma a lui in modo impensabile - nel vuoto. Dormiva di giorno lavorava la notte era una enciclopedia vivente di massime Il professor Paolo Ungari: è precipitato c morto nella tromba dell'ascensore