«Politichese» a misura di tv di Raffaella Silipo

«Politichese» a misura di tv Studio dell'Università di Cassino: Berlusconi e Bossi i semplificatori «Politichese» a misura di tv Raffaella Silipo LE parole per dirlo. C'è chi preferisce il discorso logico e stringente alla Togliatti, chi quello emotivo-viscerale di gusto mussoliniano, chi il sapore curiale e paternalistico di Scalfaro. La retorica è da sempre l'arma più efficace del politico e anche nell'era delle immagini la parola continua a essere forte veicolo di potere. «Conquista il popolo con disgustosi manicaretti di parole» diceva già Aristofane. D linguaggio più diffuso, però, oggi è quello televisivo: breve, veloce, oggettuale, semplice e semplificatono. I precursori? Umberto Bossi e Silvio Berlusconi, almeno così dice il primo studio universitario sui cambiamenti del «politichese», condotto dal professor Giuseppe Antonelli, docente di storia della lingua italiana all'università di Cassino. Sarebbero loro «i grandi semplificatori» della lingua politica in Italia. «Una potente bordata alla tradizione è venuta da Bossi e dalla sua Lega», dice lo studio. L'eloquio del sei*c. ur «è caratterizzato da forme espressi", a immediatamente comprensit'U e • ais;ri informali» validi per entrare ih contatto con la gente. G1> i gin l'icano «molto efficaci» i sistemi ti ..guistici messi in campo da Bossi «per la crescita del consenso» e per ^canalizzare il disagio e indirizzare la rcT*esta». Dal punto di vista della coiarezza, promosso a pieni voti è poi Berlusconi. «I suoi discorsi sono di facile lettura, fondati per il 75% sul lessico di base (e privo di parole rare) e in gran parte su frasi brevi». D'altronde Berlusconi si è forgiato sulle convention, sa vendere, essere concreto. Con lui - dice Antonelli - si è imposto nel Palazzo «un nuovo modello di lingua» fondata sull'esigenza di «farla finita con le chiacchiere incomprensibili». Già, perchè se un tempo al governante faceva gioco che il governato non lo capisse e perciò pensasse fra se e sé, ammirato, «quanto è bravo», adesso il governato si spazientisce, cumbia canale, non va a votare. E allora il politico cambia registro, si ancora «al lessico di base», «alleggerisce la retorica», sceglie discorsi che garantiscano un'immediata presa sul pubblico». A essere cambiata è anche la composizione del Parlamento. Una volta in aula sedevano giuristi e umanisti, tradizionalmente più «bizantini», oggi si sono moltiplicati i tecnici, economisti ma anche medici e scienziati, dal linguaggio più pragmatico. Ciascuno, naturalmente, a suo modo. Cosi per un Fini tagliente, sempre alla ricerca della frase a effetto, che trova la sua forza nel parlare poco, c'è un Mastella imaginifico, che imbroglia le carte ma tiene sempre vivacemente la scena. Per un De Mita così sottile nei ragionamenti da sembrare, all'uomo di strada, evanescente, c'è un Di Pietro ruspante fin quasi a sfiorare la macchietta, pieno di riferimenti dialettali. Abile - come Berlusconi - a infilare nel discorso «refrain» immediatamente memorizzabili che lo identificano: dal «Che c'azzecca?» al «Mi consenta». Dalle aule del Parlamento la semplificazione dovrebbe poi arrivare negli uffici pubblici, almeno negli intenti di ben quattro ministri della Repubblica, Cassese, Urbani, Frattini e Bassanini, che hanno lavorato in tempi diversi per arrivare a varare nel 1997 un «Manuale di stile per i burocrati». Dove si legge, fra l'altro: «Evitare le frasi subordinate, i gerundi, gli incisi». Quattro comandamenti su tutto: ordine, semplicità, essenzialità e comprensibilità. Commentava, all'epoca, Violante, con un filo di nostalgia, che «l'oscurità delle parole derivava dal desiderio di neutralità. Certe parole semplici, come lavoratori, erano scartate perchè cariche di significato ideologico». Come dire, va bene semplificare: ma se la realtà è complicata, anche le parole devono essere complicate. E se proprio non si vuole rischiare l'incomprensione, non si sbaglia mai con il vecchio, eterno, silenzio.

Luoghi citati: Cassino, Italia