Il «modello leghista» divide i Popolari

Il «modello leghista» divide i Popolari Lavatone, faccia a faccia tra i candidati al dopo-Marini: il progetto Mattinatoli segna le differenze Il «modello leghista» divide i Popolari Sul «partito regionale» duello fra Castagnetti e Franceschi™ inviato a LAVARONE «Parlerò con lo spirito di un delegato al congresso...». Nell'aria frizzante di Lavarono, Rosi Bindi comincia cosi, giura di «non avere ancora scelto» e si augura un congresso «vero» e «senza padrini». Ma il suo intervento al convegno del Ppi, quello che dovrebbe essere un'introduzione al primo faccia a faccia tra Dario Franceschini e Pierluigi Castagnetti, autocandidati alla successione di Franco Marini, si trasforma presto in un lungo discorso programmatico. Al punto da sollevare tentazioni strane: «Ce la facciamo a portare lei alla segreteria?», sussurra uno del pubblico al suo vicino. Un'ipotesi che il ministro della Sanità respinge con sdegno e fastidio palesi, ma che non pare sorprendere più di tanto Castagnetti. «Io mi auguro un congresso senza madrine», punge. I due aspiranti si preparano alla volata verso il congresso incarnando le due facce di un partito ferito. Il quarantenne Franceschini, il vice Marini in carica, cerca di scrollarsi di dosso l'etichetta di «giovane» impegnato in una battaglia di generazioni: «La democrazia cristiana ha conosciuto la fase di più forte rinnovamento quando ha elotto alla segreteria un uomo di 70 anni come Zaccagnini», ricorda. Castagnetti, già capo della segreteria di Martinazzoli, tenta di accreditarsi come il «rinnovatore» del partito: lancia idee rivoluzionarie come i «focus» permanenti per far dialogare dirigenti e cittadini. Entrambi partono dalla sconfitta europea. Franceschini parla di «autocritica», Castagnetti può sfoderare gli accenti dell'aio lo avevo detto». Adesso, provoca, «possiamo scegliere se cambiare o continuare così». Tra i due, come un macigno, la proposta del partito del Nord lanciata da Martinazzoli, l'uomo che si è già sbilanciato per Castagnetti. Il più giovane provoca il rivale con una battuta: «Ho scoperto che la mia Ferrara sta cinque chilometri più a Nord della tua Reggio», scherza. Poi va giù duro: parla di «bossismo di ritorno», di progetto «che non si può fare, non si può accettare, che bisogna eliminare dal dibattito». L'altro non ci sta: denuncia le «alchimie romane», parla del progetto lombardo come dell'unica via «per non sentirsi forestieri nel centro dinamico del Paese», invita i popolari ad avere coraggio, a scrollarsi di dosso la prudenza, a «riportare il piacere del rischio nell'agone politico». Franceschini chiede un «linguaggio più moderno» per farsi capire dalla gente. Castagnetti rompe il tabù delle eredita: «Ci serve un partito contemporaneo. Basta con le citazioni di don Sturzo: ci ha lasciato un'eredità culturale preziosissima, ma i suoi problemi erano diversi dai nostri...». Tutti e due dicono di voler riprendere il dialogo con l'Asinelio, tutti e due prendono le distanze da Di Pietro, già bollato dalla Bindi come «ribaltonista dei princìpi» per la sua uscita nel terreno degli avversari. Castagnetti e Franceschini tracciano scenari diversi, pur restando fermi nel difendere il ruolo del Ppi al centro dell'alleanza. Ma il vero discorso programmatico, a poche ore dal forte richiamo ai valori che ha entusiasmato la platea popolare di Lavarono, viene dalla Bindi. Il ministro prima nega che Scalfaro abbia voluto in qualche modo schierarsi dalla parte di Franceschini. Poi si mette con forza nella scia dell'ex presidente, lo rincorre sul piano dell'identità ideale che i popolari devono ritrovare a ogni costo: «Non so concepire la missione di questo partito se non nella sua capacità di tradurre nella realtà di oggi il significato della tradizione cattolico-democratica. Non dobbiamo avere paura di rimarcare le differenze, specie di fronte ai cedimenti culturali della sinistra davanti alla destra». Senza diventare per forza «il partito dei panda cattolici», senza perdersi in interminabili dibattiti «sul trattino da mettere o meno tra le parole centro e sinistra», soprattutto senza dimenticare che il piano di Cossiga per contrapporre il Centro alla Sinistra «non ha più ragione di esistere» e che l'unità di posizioni è fondamentale: «La De candidava tutto e il contrario di tutto. E alla fine i voti si sommavano». Ma oggi le differenze interne i voti «li sottraggono». «E' inconcepibile che nel partito ci sia chi ha fatto la sua campagna elettorale contro la riforma della Sanità...». La Bindi chiede un partito più forte, «capace di dire chiaramente che la terza via che ci interessa non è quella che vorrebbe innestare alcuni principi liberisti nella concezione socialdemocratica della società». Capace di far capire in Europa che l'alleanza con la sinistra «non è un'anomalia, ma l'anticipazione di un processo storico». Capace soprattutto di dire parole chiare e riconoscibili sullo Stato sociale, la sussidiarietà, le riforme, la giustizia, la scuola, la famiglia. «Non possiamo permetterci visioni differenti. Non possiamo portarci dietro, nascoste nel nostro 4%, le contraddizioni di un partito che non c'è più». (g. tib.l Il vicesegretario «Parlare più chiaro dopo la sconfìtta» L'eurodeputato «U avevo già detto» Rosi Bindi «Non abbiate paura di rimarcare le nostre differenze da destra e sinistra» Qui accanto l'eurodeputato Pierluigi Castagnetti A destra Dario Franceschini attuale vicesegretario del Ppl Sono candidati alla successione di Marini

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