Timor, il giorno più lungo di Domenico Quirico

Timor, il giorno più lungo I nazionalisti indonesiani pronti a scatenare il caos. l'Onu: siamo indifesi Timor, il giorno più lungo Oggi i risultati del voto sull'indipendenza Domenico Quirico DIU A Maliana, sessanta chilometri dalla capitale di Timor, il terrore è iniziato in modo ordinato. La divisa dei killer è minima: appena una fascia bianca e rossa, i colorì dell'Indonesia, avvolta intorno al capo. Sono alcuno centinaia, scivolano per le strade deserte urlando slogan. In mano hanno di tutto: mitragliatori modernissimi usciti dai compiacenti magazzini dell'esercito, vecchi fucili da caccia, bastoni, lance rudimentali e soprattutto i terrìbili machete. Sono gli uomini dell'Aitarak, la milizia nazionalista che si oppone all'indipendenza dell'isola annessa ne) 197G dall'Indonesia, dopo che il secolare sonnolento colonialismo portoghese se ne era andato in punta di piedi. Per vent'anni sono stati padroni arroganti dell'isola, il governo dava loro le terre migliori, mentre l'esercito si occupava di intimidire e uccidere gli ex sudditi portoghesi aggrappati intorno alla loro lingua, alla fede cattolica e al sogno dell'indipendenza. Da oggi, quando verranno resi noti i risultati del referendum sull'autodeterminazione, rischiano di diventare, a loro volta, profughi e vittime. Lottano contro il tempo a colpi di terrore, hanno ancora a disposizione poche ore per cambiare un destino che sembra segnato. E la loro violenza esplode, infuria, brucia da un capo all'altro dell'isola. Qui a Maliana, a Liquisa, nel distretto di Ermcra, ovunque lasciano una scia di fuoco e di morte. Prima hanno attaccato le case degli indipendentisti, bruciando e uccidendo. Lunghe file di profughi hannc preso la via dei santuari sulle montagne dove per anni la guerriglia ha cercato di tener desta la fiamma dell'indipendenza. Stavolta il bersaglio sono gli uomini delle Nazioni Unite. Sono loro i «nemici», accusati di aver imposto il referendum, di parteggiare apertamente per la vittoria degli indipendentisti. Nei giorni scorsi hanno attaccato la sede della missione Onu nella capitale uccidendo almeno quattro persone. Ora vogliono ripulire tutte le cittadine e i villaggi dei dintorni, «zone liberate» da cui tener lontano i fantasmi dell'indipendenza. La polizia indonesiana segue docile un copione, mette posti di blocco; poi, dopo qualche discussione con i miliziani, si fa da parte. Quando i funzionari, assediati, minacciati di linciaggio, terrorizzati chiamano i rinforzi, i militari arrivano con tutta calma. Solo per scortarli al comando di polizia e poi, in una mesta colonna verso la capitale, tra gli insulti, gli sputi e le minacce delle squadracce. «Stanno bruciando tutto racconta uno di loro ancora sotto choc - i miliziani sono senza controllo, completamente pazzi». Adesso, senza testimoni scomodi, la caccia ai traditori rifugiatisi sulle montagne, che tentano di difendersi impugnando vecchi arnesi da guerra e archi preistorici, può comin ciare. A Dili, nella sede della commissione elettorale, lo spoglio intanto prosegue. Ha votato il novanta per cento della popolazione e, se non ci saranno brogli clamorosi, il risultato è scontato: una vittoria schiacciante degli indipendentisti. Il ventennio di occupazione indonesiana, la selvaggia brutali- tè di un colonialismo indigeno che ha fatto impallidire quello di olandesi e portoghesi, macchiato dal genocidio di almeno duecentomila persone, per Djakarta lascia un bilancio disastroso: il muro di rifinìo si è allargato, la comunità internazionale non sembra disposta a concedere neppure al nuovo governo che ha preso il posto del longevo dittatore Suharto, cambiali in bianco. E c'è da gestire la scottante eredità di duecentomila fedelissimi che ora chiedono protezione: coloni trapiantati nell'isola da altri tasselli dell'immenso arcipelago per purificare etnicamente questa popolazione melanesiana e cattolica. Il colonnello Muhammad Noer Musi comanda la guarnigione del piccolo territorio; ieri lunghe file di camion e hercules hanno irrobustito il suo esercito con altre migliaia di uomini. In una intervista al «Jakarta Post» ha fatto una rivelazione inquietante: «Abbiamo pronti i piani per portare via duecentocinquantamila persone, se la situazione dovesse sfuggire al controllo. E' una prospettiva che non ci piace, ma non possiamo permettere che i civili siano vittime di un conflitto che non comprendono». Sono segnali, avvertimenti che il governo di Djakarta lancia in attesa dei risultati di oggi. L'alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani, Mary Robinson, sa bene che potrebbe iniziare un altro capitolo di ben pianificato caos; per questo chiede l'invio di una forza militare intemazionale. Di fronte all'isola incrocia una nave della Marina americana. Ma le speranze della signora Robinson, per ora, sono deboli. «La prospettiva di un intervento ha detto il vice ambasciatore americano Peter Burleigh - non è praticabile. Abbiamo piena fiducia nelle autorità indonesiane». Oggi a Dili sarà un giorno molto lungo. Bande di miliziani armati fino ai denti cacciano i funzionari delle Nazioni Unite Poi, senza testimoni scomodi, attaccano gli oppositori Una delle bande di nazionalisti, il capo fasciato dei colori rosso e bianco dell'Indonesia, che in questi giorni imperversano in città e villaggi di Timor Est

Persone citate: Mary Robinson, Muhammad Noer, Peter Burleigh, Robinson, Suharto

Luoghi citati: Dili, Indonesia, Maliana, Timor Est