Ferrerò, a teatro contro il fascismo

Ferrerò, a teatro contro il fascismo Ferrerò, a teatro contro il fascismo Brillantissimo e precoce talento, nipote di Lombroso, autore di «Angelica»: è l'Italia insidiata dalla dittatura e salvata dall'«uomo che resiste» LA necessità - dicono - aguzza l'ingegno. Ma anche il privilegio non scherza: può tirare fuori, persino dall'imprigionante sicurezza che danno la bastevole ricchezza e le giuste relazioni, personaggi da non scordare. Misteriose meteore esistenziali tanto che velocemente solcano - e spariscono cieli che diffuso conformismo politico e occhiuto controllo repressivo rendono ancora più bui. E' probabile che pochi si ricordino del transitare di Leo Ferrerò (1903-1933) autore di «Paris, derider modale de L'Occident» e '(Leonardo o dell'arte», con prefazione di Paul Valéry la i:ui vita dispiega un'estraniet.à quasi istintiva, non solo alla dittatura che si sUi imponendo ma anche, alle plebi che l'osannano, Troppe cose dividono questo giovane dal vociare della marmaglia in camicia nera e dal becero richiamo che dal balcone di Piazza Venezia il DucioI)'- lanciava a beneficio delle grandi masse e degli sradicati arrampicatori in cerca di bottino e di avventure. Chi si legga il «Diario di un privilegiato sotto il fascismo» lasciato da Leo Penero, brillantissimo e precoce talento, compagno di studi di Carlo Rosselli, nipote di Lombroso, figlio di quel Guglielmo Ferrerò, saggista e opinionista impostosi por decenni come una delle poche figure di spicco che brillano sulla stampa internazionale, misura la concreta distanza che separa questo mondo da ciucilo che, in quegli anni, sta avvolgendo tutta la penisola. E' il 1927 quando i Ferrerò lasciano la città per la campagna. Leo, già reduce dello strepitoso successo di «Campagne senza Madonna» che incuriosisce Pirandello tanto da invitare il poco più che ventenne autore a fondare con lui il «Teatro dei Dieci», la prende con filosofia. Costretti dall'estendersi della minaccia fascista e dall'ostracismo lancialo contro di essi dalla Firenze perbenista e già infeudala al Regime (a cominciare dal padrone di casa, il musicista Francnetti, che li sfratta dalla bella casa accostata al giardino del Hoholinolsi trasferisco¬ no alla villa dell'Ulivello. Lì si starà soli ma - scrive Leo nel suo diario sarà meglio: perché «la solitudine in città è assai più penosa che la solitudine in campagna, dove è naturale». In realtà sono soli fino ad un certo punto. Circondato dai genitori e da tutta la sua amatissima famiglia, le giornate operose di buone letture, di amici stranieri che arrivano ospili, di buona musica Leo Ferrerò scruta al di là del giardino della villa e scorge gli «altri» che li spiano, li sorvegliano. La filigrana sprezzante e elitaria del diario di Leo Ferrerò sta proprio nel quotidiano scrutare queste avanguardie che la dittatura dispiega per perfezionare il suo assedio. Non temibili avversari ma miserabili e tremebonde figure di poliziotti in borghese beccati mentre si celano sotto le siepi, commissari che amoreggiano con le domestiche di casa per scippare informazioni, carabinieri scovati dal professor Ferrerò nel giardino: «Si vede verso la valle, un sigaro acceso, tra le lucciole. Papà grida: "Chi fuma laggiù". Un carabiniere risponde molto commosso: "Sono io, signor professore". "Lei commette un reato - grida papà - art. l&l'-'del dodice penale". "Lo" conosco anch'io, professore. Ma ho avuto l'ordine"». Alla fine, naturalmente, vincerà la dittatura e Leo se ne va dall'Italia. Prima raggiunge Parigi dove lavora a «Angelica» in cui rappresenta la condizione in cui è caduta l'Italia. Un testo teatrale - che ha molte assonanze con «Le mariage de Figaro» del Beaumarchais - dove il Reggente dispotico e tiranno (figura calibrata a metà tra quella di Mussolini e D'Annunzio) giunge a imporre lojus primae noctis alle sue suddite. E nessuno è disposto a battersi per salvare la virtù delle gentili signore neppure quando si tratta della bellissima Angelica (che rappresenterebbe l'Italia). Finalmente entra in scena quello che sarà il liberatore della fanciulla: si chiama, ovviamente Orlando, ed è conosciuto come «l'uomo che resiste». Insomma rappresenta le forze nobili dell'antifascismo. Dopo molte traversie Orlando conquista il sostegno della moltitudine e obbliga il Reggente alla fuga. Però, quasi immediatamente, la folla comincia a dubitare del suo eroe? Scacciato il reggente perché non ne prende il posto? Perché non sa governare la folla come il suo predecessore? E così paradossalmente è il Reggente stesso a spiegare al suo avversario come la folla (forse anche il popolo) non meriti eccessiva fiducia perché ama, alla fine, avere qualcuno che gli tira le briglie sul collo e gli indica la strada da seguire: «Li ho calpesta¬ ti, mi hanno acclamato; li ho spogliati, mi hanno sorriso; li ho comprati, beffati, ingiuriati, violati e mi hanno ricambiato con degli inchini. La prima lega che si formò in questa città fu la lega degli stolti contro gli intelligenti. E in qualunque punto scoppiasse una scintilla di genio, un lampo di intelligenza, subito erano in mille a spegnerlo. Tutti i posti difficili furono accaparrati dagli incapaci, tutti i posti di fiducia dai ladri...». E alla fine l'Angelica-Italia dopo aver ammesso di aver provocato scientemente le attenzioni del Reggente espone con serafico cinismo la morale della favola: «Si è mai chiesto perché il Reggente aveva chiesto proprio me piuttosto che un'altra ragazza? La devo ringraziare. Orlando, per avermi strappata dalle grinfie del Reggente ma bisogna pure le confessi che ne sono stata molto dispiaciuta». E finisce, rivolgendosi ancora Angelica ad Orlando, con un'affermazione che meriterebbe forse qualche attenzione di più sia nelle pubbliche che nelle privatissime vicende: «Crede lei che gli uomini scelgano le donne che piacciono a loro e non le donne a cui essi sono piaciuti?». La commedia viene rappresentata a Parigi nell'ottobre del 1936 da quella compagnia di Georges e Ludmilla Pitoeff che aveva già portato in scena i «Sei personaggi in cerca d'autore». Il giovane Leo Ferrerò non vedrà la rappresentazione. Lasciata Parigi si è trasferito dal 1932 a New Haven, nel Connecticut dove si mette al lavoro su un romanzo che dovrebbe essere l'affresco della sua generazione. Nell'agosto del 1933 è m viaggio con un'amica nel Messico. Arrivato nei pressi di Santa Fe perde la vita in un terribile incidente stradale, alla guida della sua auto. Misteriosamente sintonico al dipanarsi del suo destino un attimo prima dello scontro, rivolto alla sua compagna, ha posto l'ultima doman' da della sua saettante corsa attraverso la vita: «Secondo lei, qual è l'ultimo pensiero di un morente?». DA LEGGERE Leo Ferrerò Diario di un privilegiato sotto il fascismo Possigli, Firenze 1993 e Là Vita felice, Milano, 1993 Pierre Augustin de Beaumarchais Il matrimonio di Figaro Einaudi e Oscar Mondadori F l li Pii l 1936 d f tt Ali At dll N di Fi ll Sl A M Chl Sd Ferrerò con la moglie a Parigi nel 1936, quando fu rappresentata «Angelica». Accanto: una scena delle «Nozze di Figaro» alla Scala con Ann Murray e Cheryl Studer