I «veci» di 50 anni fa, maestri di saggezza

I «veci» di 50 anni fa, maestri di saggezza 1 RICORDI DELLO SCRITTORE-ALPINO I «veci» di 50 anni fa, maestri di saggezza Rigoni Sterni pretendevano prontezza di riflessi e ordine Mario Rigoni Stern COME vecchio sergente con tanta guerra dietro le spalle mi fanno indignazione e rabbia i gravissimi fatti del cosiddetto «nonnismo» che in questi giorni appaiono in tutta la loro assurdità. Anch'io sono stato recluta, e che recluta: a diciassette anni mi ero arruolato volontario negli alpini e i miei anziani erano fior di uomini: guide alpine, maestri di sci alpinisti, montanari di professione «frontalieri con la bricolla», la gerla o il sacco portato a spalla dai contrabbandieri delle zone alpine. Quella sera, saputo dal furiere» che eravamo in arrivo, ci aspettarono alla stazione di Aosta e ci portarono poi in una tampa. Otto dieci di loro e otto dieci di noi: a ciascuno il suo vecio quale ospite per un piatto di pastasciutta, un quarto di vino e un pane. Questa.la tassa per entrare nella compagnia alpieri quali aspiranti allievi sciatori-rocciatori. Alle ore venti suonava la ritirata, dopo un quarto d'ora il contrappello. In camerata ci accolse un urlo; una guida alpina, il caporale Fiorelli Stanislao, nell'ambiente conosciuto come «il Lao», ci fece baciare la sua barba; il vecio che mi prese sotto le sue ali mi ordinò di preparargli la branda, ma bene, senza una grinza e dopo aver bene spiaccicato il pagliericcio, perfettamente tirate le lenzuola, lisciate le coperte «perché il vecio aveva fatto il Monte Rosa e il Lyskamm e le sue membra erano stanche e doveva riposare bene, molto bene». Suonò il silenzio. I sergenti Chiara e Panei, due grandi alpinisti, passarono a controllare la lunga fila di brande dopo aver ricevuto il rapportino serale dal caporale di giornata. Sotto la nostra camerata c'era la scuderia e dopo il suono del silenzio si sentivano sul selciato gli zoccoli dei muli. Che trepidazione nel nostro cuore in quella prima notte in caserma! Che timore nei confronti dei nostri anziani che al mattino, ancora con il buio, al suono della tromba ci fecero balzare dalla branda. Ci insegnarono subito a ripiegare con ogni regola pagliericcio, lenzuola e coperte. Noi non avevamo ancora la gavetta e ci imprestarono il loro coperchio o il gavettino quando la tromba chiamò per icaffè. Ci fecero poi pulire le loro gavette alla fontana decortile dove ci eravamo lavati a torso nudo anche se era dicembre. Uno di noi si rifiutò dsciacquare la gavetta del «suo vecio» (a casa, aveva detto, le stoviglie gliele lavava là donna di servizio). Con il rancio della sera gli fecero nettare tutte le gavette della compagnia, anche le nostre, e quando rientrammo dalla libera uscita era ancora lì che lavorava sotto il controllo del caporale di giornata. Dopo qualche giorno che ci stavano osservando, a me fecero lavare tutte le sputacchiere della camerata (forse perché ero delicato in certe cose: non sapevo cosa fossero quelle bacinelle di ferro smaltato di bianco con dentro sabbia e calce); ad altri fecero pulire ben bene le latrine, o la scuderia dalla cacca e dal piscio dei muli. No, non ci fecero quegli orridi scherzi di cui oggi si parla. Forse i giovani diventavano uomini prima. Quando veniva distribuita la posta, per averla in mano bisognava fare un «saltino» per il vecchio, battendo con i tacchi sul culo; se la calligrafia era femminile di Saltini bisognava farne tre, o magari un giro di corsa attorno al cortile. Tutto questo in allegria e senza recriminare pensando alla lettera che ci avrebbero consegnato. Al sabato ci facevano pelare le patate perché alla domenica, piatto unico, c'era lo spezzatino. Ma pelarle bene, ci raccomandavano i cucinieri, con la buccia sottile, per non sprecare. I nostri «veci» richiedevano prontezza di riflessi e ordine; pulizia anche. Dopo l'istruzione, o la marcia o la palestra di roccia prima del silenzio serale ci controllavano i piedi per vedere se li avevamo lavati. E anche se la gavetta era pulita. A uno di noi che non l'aveva bene lavata (veniva bella se prima del risciacquo si detergeva con una manciata d'erba), fecero fare tre giri di corsa attorno al cortile. Poi vennero il corso sciatori e le escursioni invernali. Ero proprio un ragazzo, ma alle prove acquistai stima e rispetto da persone straordinarie, e anche lezioni di vita. Un giorno, eravamo in'un rifugio in alta quota, alla distribuzione dei viveri di conforto mi toccò una razione di pancetta affumicata che ritenevo la più piccola tra quelle distribuite. Perché proprio a me? E protestai vivacemente per quella che ritenevo un'ingiustizia. Il mio caporalmaggiore, un piemontese delle alte valli, mi guardò serio dicendomi: «Dammela e prendi la mia». Mi diede la sua razione in cambio dicendo qualcosa davanti a tutti e provai una vergogna che ancora sento. Scrissi sul mio note?: «Oggi Rabbia mi ha dato una lezione che non dimenticherò». Un'estate, era il 1939, ero incidentalmente caduto dentro un crepaccio sul Monte Bianco. Una caviglia non si era soltanto distorta ma anche incrinata e il capitano Cremesi mi fece rico- verare nell'infermeria del 4° Alpini ad Aosta. Non fecero radiografie, non ingessature e mi diedero dieci giorni di «riposo in branda». Ma io, pensando ai miei compagni, provavo invidia e nostalgia per quelle montagne. Insomma in quella camerata della Caserma Testafochi mi ero occasionalmente trovato con delle reclute arrivate da pochi giorni e degli anziani che noi dei reparti chiamavamo «topi di magazzino» e questi «topi» al mattino pretendevano il caffè servito in branda dalle reclute. Mi avevano da poco promosso caporalmaggiore e di questo piccolo fatto delle reclute-camerieri feci rapporto scritto ai capitano di servizio e gli pseudo-«nonni» vennero trasferiti di compagnia con relativa punizione. Così il «nonnismo» nei miei tempi lontani. Ma quando venne la guerra, e non le manovre e non le escursioni, le reclute che ci avviavano alle compagnie a riempire le perdite erano da noi «veci» guardate e curate come fratelli minori bisognosi di attenzioni e di consigli; ci sentivamo anche responsabili nei loro confronti e loro ci ricambiavano con rispetto e devozione. Ma prima, prima che ci avviassero sui vari fronti di guerra, era impensabile la scomparsa di un soldato in caserma. A ogni contrappello serale se uno mancava, accadeva molto di rado, il nome veniva segnalato all'ufficiale di picchetto o al sergente d'ispezione. Il ritardo quasi sempre era dovuto a incontro amoroso e al rientro il malcapitato finiva nella camera di punizione vicino al corpo di guardia. Se l'assenza durava più del tollerato il nominativo veniva segnalato ai carabinieri. Dentro la caserma era impossibile che uno non si facesse trovare. Ora, nel caso del paracadutista Scieri, ci si viene a dire che in caserma «non avevano cercato». Ma come è possibile? Dentro una caserma non ci sono più il caporale di giornata, il sergente d'ispezione, il capitano di servizio, l'ufficiale di picchetto, la corvè, che girano per i cortili, per gli angoli morti, i magazzini, le cucine, le armerie ecc.? In una caserma «Zona militare» sotto stretto controllo è possibile che non ci si imbatta in uno che è lì da ore in agonia? Allora uno qualsiasi potrebbe anche entrare, fare quello che vuole indisturbato per poi andarsene. Insomma, a questo vecchio sergente, che ne ha viste tante, viene da dire che i soldati «modello Rambo» non sono buoni soldati se questi sono i risultati. Sono dei poveri meschini, vili che non hanno il coraggio della verità: non è buttandosi con il paracadute o comandare urlando che si è buoni soldati. E, per finire, mi raccontava un cittadino al ritorno dal servizio di leva, nella sua caserma c'era un maresciallo urlatore che all'interno del suo armadietto aveva incollate le fotografie di Mussolini e di Hitler ai quali ogni mattina porgeva il suo saluto. Emanuele Scieri, il paracadutista morto e nella foto grande un reparto della Brigata Folgore

Persone citate: Emanuele Scieri, Fiorelli Stanislao, Hitler, Mario Rigoni Stern, Mussolini, Panei, Rabbia, Rigoni, Saltini, Scieri

Luoghi citati: Aosta