Lavorare stanca... e rende felici

Lavorare stanca... e rende felici Lavorare stanca... e rende felici Un aureo e sempre attuale libretto su «La fatica» del professor Angelo Mosso, illustre scienziato positivista nell'Italia fine '800 LAVORARE stanca. Ma - se si ha la fortuna di esercitare una professione praticata con indomito coinvolgimento - può accadere che lavorare sia meno noioso che divertirsi.Probabilmente la pensava così anche l'insigne professor Angelo Mosso (Torino 1846-1910), uno che al teina ha dedicato molte appassionate ricerche confluite poi in un libro, «La fatica», pubblicato nel 1891 e che offre ancora oggi molti spunti interessanti sino a farne uno dei testi divulgativi più ingiustamente dimenticati del neopositivismo italiano. Anche se non raggiunge i vertiginosi successi editoriali conosciuti dal suo collega Lombroso, Angelo Mosso e figura notevole. Alcuni dei suoi volumi consapevolmente diretti ad un largo pubblico - «La paura», «Filosofia dell'uomo sulle Alpi», «L'educazione fisica della donna» sono apprezzati da numerosi lettori. Oltre ad essere un efficace scrittore di cose scientifiche Angelo Mosso ha un curriculum accademico di tutto rispetto. In un certo senso figure come la sua rappresentano il maturare di nuovi talenti scientifici italiani, cresciuti grazie all'innesto di esponenti europei portatori di una nuova cultura scientifica nelle più prestigiose facoltà di medicina del Regno. Operazione voluta principalmente da Gaetano Ue Sanctis e dal suo successore Matteucci quando, reggendo il dicastero dell'Istruzione, chiamano ad insegnare in Italia i fisiologi Jakob Moleschott, Moritz, Schifi, Aleksandr Herzen nonché l'anatomo-patologo Otto vonSchròn. Un'operazione varata all'indomani dell'unificazione nazionale e che lo storico della medicina Giorgio Cosmacini cosi spiega: «Se per Matteucci fisiologo egli stesso... si tratta di un'operazione di politica culturale che può essere vista e valutata all'insegna dell'avanzamento scientifico, per un cultore di umanità come il De Sanctis... costituisce un atto di forza che si inscrive nel disegno ideologico di emargi¬ nare vecchie concezioni della vita umana per fan: posto alla visione naturalistica di un uomo che, come l'uomo di Machiavelli, ha nella natura i suoi lini e i suoi mezzi». I maestri di Mosso sono proprio i protagonisti di quella stagione: duramente avversata da numerose anime bello. Sino ad arrivare all'invettiva con cui il Tommaseo accusa proprio il Moleschott di tenore lezioni che sono «imbrogliato bestemmie germaniche che spingono i giovani medici a professare medicina atea». Angelo Mosso, lavorando molto e dispiegando ricerche che s'impongono per l'intelligenza e il rigore, arriva noi 1879 a salire alla cattedra di fisiologia tenuta proprio dal suo maestro Maleschott, appena chiamato all'università di Roma. E tuttavia - proprio come tanti altri colleglli che si sono formati a questa scuola - Mosso non lascia che la cattedra diventi una barriera, frapposta alla realtà sociale o umana che lo circonda. Di questa capacità di essere scienziato e di condividere nel frattempo, con immensa pietas e sdegnato fervore, il doloro degli ultimi anni, il suo volume dedicato alla fatica ò eloquente testimonianza. V i si parla tra l'altro dei suoi in izi di carriera. Medico militare mandato a svolgere le lezioni di leva in una Sicilia appena unita all'Italia: «Io visitava i coscritti dietro l'altare maggiore, nel coro, e aveva intorno a me una fila di giovani nudi, anneriti, magri, e Tramezzo ad essi alcuni uomini grassi, paffuti, bianchi, come fossero di un'altra razza. Erano i poveri e i ricchi. Talora ci passavano dinanzi i coscritti i comuni interni, tra i quali non poteva trovarsi un giovano che fosse abile alle armi, tanto gli stenti e la fatica avevano deformate o rese deboli quello popolazioni. I sindaci orano umiliati da tanta degradazione. Sono «carusi», mi dicevano: cioè operai che fino da fanciulli hanno lavorato a portare lo zolfo». E qui lo scienziato Mosso - come spesso accade in questo libro in cui l'osservazione sperimentale e scientifica si unisce alla schietta esplicita z.ione di personalissimi pensieri e sentimenti - aggiunge: «Uscito da quella chiesa ho conservato per lungo tempo un'amarezza nel cuore. Il cielo era cosi bello e sereno, il solo splendentissimo che animava una vegetazione dei tropici, gli aranci, le vigne, gli alberi di oleandro giganteschi ricoperti di fiori: tutto mi diceva che la natura non era complice di quella disuguaglianza terribile fra gli uomini, che offendeva non solo lo stomaco, ma i muscoli, e lo scheletro e il diritto sacro alla vita». Spesso nel suo procedere attraverso la dettagliata descrizione della fatica che colpisce tutti gli esseri viventi (lo scienziato torinese analizza a lungo, per esempio, lo stress dei colombi viaggiatori da lui allevati con grande passione sulle colline dell'Astigiano) Mosso trova questi toni. I più commoventi sono quelli dedicati agli emigranti piemontesi stroncati dalla fatica e dal freddo sul passo del Gran San Bernardo: «Ogni anno migliaia di operai piemontesi vanno in Francia o in Svizzera, e, ritornando al principio dell'inverno per la valle del Rodano, ogni anno qualcuno muore di fatica e di freddo lungo la strada del Gran San Bernardo. I cadaveri vengono portati in una stanza che si trova circa cento metri distante dall'ospizio: e li lasciano lì come furono trovati, perché i passeggeri o i parenti che li vanno cercando possano riconoscerli. Chi guarda dalla finestra nell'intorno di questa camera mortuaria non dimenticherà per tutta la vita ciò che ha visto...». E quindi prosegue: «Sulle Alpi la neve non scende a fiocchi larghi come nella pianura, è una neve fina, polverosa. Sono granellini di ghiaccio che il vento spinge impetuoso contro la faccia, che saltellano e penetrano da per tutto, e scorrono sulla pelle, che nessun vestito, per quanto chiuso, difende mai abbastanza. Il vento sospinge la neve furiosamente, spazzandola sui pendii, accumulandola nelle forre. A volte si vede il turbine che attraversa vorticosamente la strada e fa scrosciare la selva dei pini, scendendo a valle... Chi non è stato sulle Alpi non può immaginare quanto avranno sofferto quegli sventurati prima di morire... Ci si ferma qui. Ne «La fatica» del professore torinese successore di Moleschott emerge l'eco e la forza di altre pagine. Sono quelle dedicate da Jules Michelet alla montagna, al mare, al popolo. Lavorare - come ha detto sempre il professor Mosso - sicuramente stanca. Talvolta rende più felici che andare in ferie. DA LEGGERE A. Mosso La fatica Milano 1891 G. Cosmacini Medicina, ideologie nel pensiero dei clinici in Intellettuali e potere. Storia d'Italia Einaudi. 1981 I. Michelet, Il popolo Milano 798.9 Un'immagine di lavoro contadino nell'Italia fine '800: alla fatica dedicò uno studio nel 1891 Angelo Mosso (Torino 1846-1910), medico- scrittore tra i più affermati e popolari