Viaggio nella citta degli appestati

Viaggio nella citta degli appestati DEI SOCCORSI Viaggio nella citta degli appestati A Golcuk non si entra più: allarme epidemia reportage Brunella Giovare inviata a GOLCUK Comincia qui la città appestata. Su una linea di confine tracciata tra un distributore Otogaz mezzo crollato e una moschea verde smeraldo, intatta, se non fosse che il minareto è andato giù abbattendo una stalla. I militari fermano le macchine, controllano i documenti e danno il via Ubera maledicendo chi vuole entrare a Golcuk, centomila abitanti prima del terremoto, millecinquecento ieri, dopo che le autorità hanno fatto allontanare i superstiti e li hanno spediti lontano, in un accampamento di tendine bianche a due posti della Mezzaluna Rossa, che finalmente è arrivata anche qui assieme alla «Sivil Savunma», la protezione civile. Una città in quarantena, dicono a Instanbul. Ma i medici turchi rimasti vivi e al loro posto di lavoro negano che ci sia l'epidemia, e che sul poco rimasto possa davvero piombare l'ultimo flagello: colera e tifo. I medici stranieri si dichiarano perplessi. Dubitano che il colera possa risorgere, e così presto. Perché il vibrione ha tempi lunghi, e arriva almeno quindici giorni dopo queste catastrofi. Michael B. Strauss, medico ortopedico di Los Angeles, riservista della Marina militare degli Stati Uniti, è uno scettico. «Io di malati di colera non ne ho visti. Quando ne vedrò uno, ci crederò». Appesa al collo, assieme alla mostrina di riconoscimento, porta un piccolo apriscatole che è il suo portafortuna: «Mi serviva per aprire le razioni di sopravvivenza. Sono stato a Danang, Vungtau, Natrang, Cam Hon Bay. Saigon, conosce? Ho fatto il Vietnam come ufficiale medico in un'unità di sommozzatori. Non ero in un M.A.S.H., ma ho visto le mie. La malaria, ad esempio. Quello era il nostro vero problema. A parte il nemico, naturalmente». Qui nemici non ce ne sono, nessun «Charlie» pronto a tagliarti la gola nella giungla. Gli americani arrivati la notte del 19 dalla base di Agnano, Napoli, hanno trovato solo gente che «aveva bisogno di tutto» e hanno piantato il loro ospedale da campo dietro allo stadio di Izmit, dove nemmeno le loro tende perfette a tre strati riescono a proteggere il team di emergenza dalla polvere turca. Gli elicotteri pattugliano le vie di Golcuk. Quei piloti sono gli unici esentati dalle misure ordinate per chi voglia entrare in città. Loro respirano, in alto nel cielo. Gli altri devono avere maschere e guanti, a partire dai disperati che si devono avvicinare alle rovine dei palazzi e spruzzare disinfettanti, o spargere calce. Le ruspe sono ferme, non si scava più. Ieri hanno tirato fuori una donna paraplegica: Adalet, 130 ore sotto la sua casa, l'ultimo record di questo disastro. Viva, ma sarà una delle ultime su cui si accaniscono le squadre specializzate arrivate da fuori, dall'estero. Norvegesi, israeliani, agerbaigiani, russi, decine di unità di soccorso sono arrivate qui dopo la scossa di lunedì notte. Ma una settimana dopo svizzeri, francesi e inglesi dicono che così non si può andare avanti, che loro sono venuti a scavare i vivi e che qui vivi non ce ne sono più. Dicono che il rischio di infezioni è troppo alto. Se ne andranno, proprio mentre arrivano gli italiani. La nave San Giorgio ha attraccato ieri a Golcuk, 120 marò della San Marco hanno visto della città la parte sommersa dal mare. Un'on¬ data tipo Tsunami ha travolto i caffé e i condomini che guardavano il mar di Mannara, sotto sono rimaste centinaia di persone, tra turisti, locali e militari della base navale della Marina turca. Ogni tanto Ionia a galla un cadavere gonfio, un sommozza¬ tore lo aggancia e lo trascina a riva. Ieri pomeriggio le macchine della polizia hanno pattugliato le vie distrutte e gridalo ai rimasti che «non c'è pericolo. State tranquilli e seguite le istruzioni». Ma i riinasti sono inquieti, la parola (epidemia» fa paura anche ai soldati, in posti come questi, con case segnate da croci dove non si deve più scavare perché la puzza dei morti è troppo forte. Colonne militari entrano in una città svuotata di tutto quello che si poteva portare via. Dopo l'ordine di evacuazione la gente ha raspato via pentole, vestiti sporchi e fotografie di giorni felici, tutto quello che è emerso dalle rovine delle loro case. I morti li hanno lasciati lì. Un soldato aspetta che tutti si siano allontanati, poi svuota un socco di calce sperando che arrivi fin sotto, dove ci potrebbe essere un uomo o un cane, tanto l'odore è lo stesso. Sullo stradone principale passa un ragazzo in bicicletta, ruote lenticolari gialle e blu, mascherina sulla faccia. 1 soldati gli urlano dietro qualcosa, lui incrocia un camion che nebulizza disinfettante, scompare nella nuvola bianca, scappa. Sulle, canna ha le > un fagotto, svolta die- tra una caserma, si gira a guardare se lo seguono, se ne va. Dietro i fili spinati e le torrette di guardia stanno scavando una fossa comune. Non c'è nessuno, solo gli operai della ruspa e uomini con il badili!, ferini sulla collina. Un mucchio di sacchi bianchi, cadaveri da seppellire subito ir. questa terra secca, e da cospargere con il cloroformio, Nell'ospedale di Stato i medici stanno operando. Le camere operatorie erano al secondo piano, ma gli infermieri non ci volevano stare e allora le hanno spostale al piano terra. «Hanno paura. Ha sentito l'ultima scossa, quella doi 5" grado Richter?», domanda Dan Manastiranu, colonnello medico dell'esercito romeno. Alle tre del pomeriggio il più alto in grado nell'ospedale di Golcuk è lui, che ha i gradi cuciti sul camice verde. In uno stanzone pieno di scatole di Urispas, Tiofen, Triburdat, Gepten e Hametan mischiati a caso, dove tutti possono cercare la loro medicina. Il colonnello si è portato dietro una equipe di undici medici: «Un cardiochirurgo, un neurochirurgo, traumatologi, anestesisti... Io sono specializzato in medicina dei disastri. "Assistent professor" all'Università di Oradea. Non si preoccupi, qui non ci sono stati casi di colera. Forse a Izmit... Comunque, piacere di conoscerla». Piacere. Ma qui le donne hanno in collo bambini con la dissenteria, chiedono il Paracetamolo in elemosina e si portano via come ladre gli omogeneizzati Gerber, quelli mandati dall'Unicef. LA SECONDA FASE Un uomo sopravvissuto davanti a quello che resta della sua casa a Golcuk. Nella foto in alto, una bimba con un pacco di biscotti ad Adapazari, e a destra, un soccorritore spagnolo con il suo pastore tedesco in azione a Yalova in un groviglio di macerie A Istanbul dicono che il centro abitato è in quarantena ma i medici quaggiù fanno gli scettici «Colera? Mai visto» Entrano soltanto militari con guanti e maschere, per spargere calce sulle rovine da cui viene più odore ROMA. L'ambasciata turca ha aperto un conto corrente presso la Banca commerciale italiana (agenzia 18, piazza Indipendenza 21, 001B5 Roma), per raccogliere le offerte da destinare ai terremotati. Il numero del conto corrente è 3224420200 (cod. Ahi 02002; cod.Cab03218). I materiali di soccorso possono invece essere inviali direttaniente alla Mezzaluna Rossa turca L'indirizzo è Kizilay Istanbul Subest, Nispetiye Cad., Deryadil Sokak I, Besictas, Istanbul (numero di telefono 90-212.227.511Ì.4, oppure 90-212.227.517.1). A CHI GLI AIUTI

Persone citate: Gerber, Mezzaluna, Richter, Strauss