«lo, scrittore a 4 mani»

«lo, scrittore a 4 mani» L'autore della «Donna della domenica» parla del sodalizio con Lucentini e del suo romanzo «lo, scrittore a 4 mani» Frutterò: in coppia si sdrammatizza Alain Elkann Carlo Frutterò è nel suo appartamento torinese, indossa pantaloni di cotone indiano leggerissimo da colonnello inglese e una polo bianca. Fuma come sempre una Gauloise arrotolata con le sue mani. E' seduto su una vecchia poltrona Frau un po' logora, circondato da scaffali di ferro rosso coperti di libri in disordine. Frutterò, come mai è appena uscito da Mondadori un nuovo libro scritto da Frutterò & . Frutterò e non da Frutterò & Lucentini, che si intitola «Visibilità zero (le disavventure dell'onorevole Slucca)»? «Perché Lucentini non legge i giornali, non ha la tv, vive a Parigi e non si interessa di politica. Io invece ho sentito l'esigenza di inventare le disavventure di Slucca. Dovevo prendere di mira la politica italiana, certi suoi aspetti anche grotteschi che sembrano immaginari, ma in realtà sono veri». E le vacanze? «A Castiglione della Pescaia, dove ho una casa da trent'anni». Lo stesso luogo dove va in vacanza Pietro Citati e dove andava anche Calvino. Un luogo per scrittori, insomma. «Sì. Però parliamo solo di cose vere, molto terra a terra. Mi ricordo che quando stavo in spiaggia con Citati e Calvino, forse la gente pensava: "Chissà che cosa stanno dicendo!", invece discutevamo se portare i nostri figli a Grosseto a vedere l'ultimo film di 007». Frutterò, la letteratura e i libri sono la sua vita. «E' così. Forse sarebbe stato bello vincere una gara di Formula uno, oppure il Tour de France, ma io sapevo solo leggere, correggere le traduzioni degli altri e quindi scrivere. Da ragazzo avevo l'ambizione di fare il vagabondo. Poi sognavo di possedere una pompa di benzina in campagna, su una strada provinciale. Insomma, il basso profilo. Non ho mai sognato grandi v,acht, ville palladiane, ricchezze». ■ Voleva diventare Balzac? «No, no. I miei grandi scrittori sono Tolstoi e Dostoevskij, ma insomma, io avrei voluto scrivere come Anita Loos, l'autrice di "Gli uomini preferiscono le bionde"». Invece ha incontrato Lucentini e siete diventati gli autori della «Donna della domenica». «Non l'abbiamo fatto apposta. C'è molta fortuna, il successo è sempre casuale. Abbiamo scritto quel libro come una specie di gioco, di tentativo. Sapevamo che forse era un buon romanzo, con dialoghi magari spiritosi, ma la verità è che il libro è uscito l'anno giusto. Poi di lì uno non si ferma più: vuol fare un secondo, un terzo libro». Come si fa a scrivere in due? «Bisogna avere un'idea fondamenta- le che entusiasmi tutti e due. Per esempio Torino o il Palio di Siena. Ci vuole una visione comune, poi ci si mette a discutere, a parlare». Come vi siete conosciuti, lei e Lucentini? «Ci siamo conosciuti a Parigi. Avevamo le stesse predilezioni letterarie, le stesse idee politiche agnostico-anarchiche. Poi lavoravamo entrambi come redattori e traduttori da Einaudi. Abbiamo scritto insieme un dramma elisabettiano che abbiamo interrotto e poi il romanzo torinese. Adesso continuiamo così. Uno butta un'idea, l'altro dice che non va bene, poi vengono varie altre posizioni, iopo un anno, due, si trova un tema e si comincia a documentarsi». Perché non scrivete sempre da soli? «Non sappiamo. Forse dev'esserci una specie d'insofferenza verso lo scrittore con la "s" maiuscola, che ci sembrava passato di moda come il Poeta, l'Esploratore, l'Aviatore. Forse già intuivamo che stavamo per entrare nel mondo di Internet. Insomma, noi non ci vedevamo come grandi scrittori e così, in due, abbiamo pensato che si sdramma¬ tizzava». Come lavorate? «Prima il progetto, poi si riassume ogni scena, ogni dettaglio, e ci si mette a scrivere. Ognuno scrive un pezzetto, poi è bloccato su un certo personaggio, va avanti l'altro e così di seguito». Ma come fate ad avere la stessa scrittura? «Alla fine, a forza di correggere insieme, pezzetto dopo pezzetto, finisce che la scrittura diventa molto simile e non sappiamo nemmeno più chi ha scritto quel personaggio, quella scena, ochi l'altra». Di altri scrittori di successo in Italia, come Camilleri e Baricco, che cosa pensa? «Camilleri mi sembra un bravo scrittore di gialli, di tipo americano anche se è italiano. Sa scrivere due libri all'anno del genere Simenon, e inventare storie molto amate dal pubblico. Ce ne fossero di Camilleri! Baricco ha quel tipo di lirismo che io non sento. Mi ricordo i saggi musicali suoi, che erano intelligenti e acuti. La sua prosa di effetti, dove non racconta nulla, non è il mio genere. Mi spiego il successo per analogia con altri prodotti. Credo che lui incanti un certo ceto sociale emergente o appena emerso. A quelli piace lo sfavillio della bella prosa». Chi le piace tra gli scrittori contemporanei? «Tra gli italiani Pontiggia: una voce vera, autentica». E come stranieri? «Non vedo tanta roba, forse qualche scrittore irlandese, ma mi sembra tutto un po' ripetitivo. Anche gli americani, i francesi mi sembrano ripetitivi. Un critico famoso scriveva: se le Tragedie di Voltaire fossero belle la cosa si saprebbe». Che effetto le ha fatto la morte di Giulio Einaudi? «Di tristezza, di malinconia. Ci sono molti vuoti, è tutto cambiato. I veri tempi eroici della casa editrice Einaudi, a Torino, erano gli Anni Trenta, dove si rischiava la vita nell'essere antifascista». La Torino di oggi è cambiata oa quelln della «Donna della domenica?» «La borghesia è sempre uguale. Adesso ci sono anche immigrati, extracomunitari, non si può andare al Valentino. All'epoca non c'erano le droghe. Ma un torinese borghese medio non ò cambiato». lei come vive a Torino? «In un quadrilatero di poche vie: piazza Statuto, via Cernaia, piazza Solferino. Mi alzo, prendo il caffè, scrivo fumando, cosa che non dovrei fare, poi vado al mercato a comprare le pesche. Sono amico delle persone che vendono dietro le bancarelle... Far la spesa al mercato è una dello ultime cose che mi legano al passato. Ho davanti un venditore, come ce n'erano già cinquemila anni fa. Lo fanno anche nel Tibet e nel Sudan. Mi sembra di fare una cosa antica. Nel pomeriggio dormicchio, prendo il tè alle cinque, poi leggo é scrivo. La sera guardo la tivù o leggo. A volte faccio anche il nonno e vado a comprare il gelato con i nipoti». State scrivendo un nuovo libro? «Forse sì. Lo progettiamo, con il commissario Santamaria ormai in pensione che vive in un paesino del Monferrato dominato da un grande castello. Il mistero lo stiamo ancora limando. Non so quando Franco e io ci vedremo. Adesso è più difficile passare insieme due o tre settimane, ma sono certo che ce la caveremo». Lei è molto pigro? «No, sono un falso pigro. Ho scritto migliaia di pagine e mi spavento da solo nel vedere la mia orrenda operosità di formica. Sono finito cume uno sgobbone torinese classico». Insomma, la sua vita da aspirante viandante è fallita. «Sì, ho fatto il padre, il nonno, lo sgobbone, ho portato a casa lo stipendio, il tetto sulla testa». Quindi sua madre sarà stata contenta? «Penso di sì. Ma forse questo era il solo modo per scrivere. Forse avevo il terrore del nulla, del vacuo, e così ho scelto questa vita per salvare la scrittura». fi fi Bisogna avere un'idea che entusiasmi entrambi, poi ci si documenta Lavorando insieme lo stile si uniforma ■ j fi fi Volevo fare il barbone o vendere benzina Sono diventato lo sgobbone ■■ DOMENICA .CON Lucentini Lo scrittore torinese Carlo Frutterò / I e del sufi fi Vil barvendeSono lo sgo . - • L Cognome -Wftl!1**.... 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